Ogni anno, all’uscita delle cinquine delle Targhe Tenco, la sensazione è sempre la stessa: un misto di rispetto e distanza, di riconoscimento e dubbio. Come se il Premio Tenco fosse una di quelle figure autorevoli e appartate che, pur non alzando mai la voce, continuano a esercitare un certo carisma. Ma nel 2025, con una discografia governata dalla viralità e dalla velocità dello streaming, viene naturale chiedersi: ma del Premio Tenco, oggi, frega ancora qualcosa a qualcuno?
La risposta non può essere netta, ma nemmeno disillusa. Il Tenco non è lo specchio del mercato discografico, non lo è mai stato, e questa forse è la sua forza più grande. Dal 1984 le Targhe premiano “i migliori dischi dell’anno” di canzone d’autore, ma lo fanno con criteri che nulla hanno a che vedere con le classifiche, i trend, le piattaforme. È un premio che parla alla qualità, non alla quantità. Alla profondità, non alla prestazione. Eppure, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato.

Le cinquine del 2025 dicono molto. Nella categoria “Miglior album in assoluto” ci sono nomi diversi, provenienti da mondi anche molto distanti tra loro. C’è Brunori Sas con L’albero delle noci, con il suo cantautorato “maturo” che sa, però, parlare anche alle generazioni più giovani; Piero Ciampi, con Siamo in cattive acque, che torna come presenza quasi simbolica, in una raccolta postuma dal valore letterario; Lucio Corsi con Volevo essere un duro, che dopo Sanremo e Eurovision ottiene l’ennesimo riconoscimento; Emma Nolde, che con Nuovospaziotempo porta una voce giovane e stratificata, confermandosi con questa candidatura come una delle artiste più interessanti della “nuova generazione indipendente”; e Federico Sirianni con La promessa della felicità, autore con una lunga militanza nell’underground poetico.
È un equilibrio sottile, quello che il Tenco cerca: riconoscere la canzone d’autore in evoluzione, senza tradire l’identità originaria. Ecco perché nella categoria “Album in dialetto” convivono mondi e linguaggi diversi: da Enzo Gragnaniello, figura storica della Napoli più viscerale, a La Niña, che con Furèsta fonde napoletano e visioni contemporanee; da Liberato, con il suo terzo lavoro enigmatico e urbano, al friulano di Alvise Nodale, fino al viaggio mediterraneo di Stefano Saletti. È l’apertura di un premio che in passato era rimasto sordo a molti suoni nuovi.
Ma sarebbe ingenuo pensare che questo basti a trasformarlo in qualcosa di “attuale”. Il Tenco non ha mai avuto fretta di stare al passo con il tempo. È più interessato a indagarlo. E lo dimostra anche nella categoria “Opera prima”, dove si ascolta il presente più fragile e promettente: Anna Castiglia con Mi piace, Laurynn con Aritmia, Cristiano Fattorini, P.A.O. e Luca Romagnoli. Giovani sì, ma non necessariamente “giovani” secondo i canoni dell’industria: qui non si premia l’esordio che fa più rumore, ma quello che vorrebbe lasciare una traccia.
Anche la sezione “Album di interprete” è, come spesso accade, un luogo di memoria e di rilettura. C’è Ornella Vanoni con Diverse, e poi Ginevra Di Marco con Kaleidoscope, ma anche un’opera postuma di Mia Martini, Tarab, che riporta in vita la sua voce e la sua arte. L’omaggio a Modugno di Giulia Pratelli e Luca Guidi, e il Canto Conte di Ilaria Pilar Patassini completano un quadro che guarda al passato con cura e consapevolezza.
La canzone singola dell’anno? Tra i cinque brani in lizza, c’è una varietà che sarebbe impensabile in altri premi: da Figlia d’ ’a Tempesta di La Niña a Gli sbandati hanno perso di Marracash, che con il suo rap lucido e narrativo irrompe in un contesto che fino a qualche anno fa gli sarebbe stato ostile. Ma ci sono anche Quando sarai piccola di Simone Cristicchi, Volevo essere un duro di Lucio Corsi e, ancora, L’albero delle noci di Brunori Sas. Un’idea di canzone come gesto autoriale, non come prodotto.

Il Tenco non è mai stato il luogo delle mode, ma oggi si rivela come uno spazio di resistenza. Un premio che non insegue il presente, ma lo interpreta con gli strumenti della profondità, della scrittura, del tempo lungo. È vero: molti nomi appartengono a una generazione adulta, se non anziana, e questo lo rende inevitabilmente distante dal pubblico più giovane. Ma forse non vuole essere un premio “per tutti”. Vuole restare un premio “per chi ascolta davvero”.
E allora sì, forse del Premio Tenco frega ancora qualcosa. Non a chi cerca nel pop un’evasione immediata, ma a chi crede che scrivere canzoni possa ancora essere un atto politico, poetico, esistenziale. È un premio che non ha paura di essere elitario, se con “élite” si intende chi sceglie la complessità invece della superficie. E in un mondo che corre veloce e consuma tutto, il Tenco resta lì: un luogo che chiede attenzione, che premia l’ascolto lento, e che continua a dare valore alla canzone come forma d’arte.

