Ci sono eventi che attendi con impazienza, altri che ti sorprendono. E poi ci sono quelli che sembrano scritti da sempre. L’incontro con Nick Cave, a Pompei, è stato per me questo insieme. Tutto è cominciato con l’annuncio delle date italiane del tour. Ho letto il comunicato, ho guardato le città, e il cuore ha scelto: Pompei. Non avevo dubbi. Acquistare i biglietti è stata un’odissea, il sito intasato, le prevendite faticose, ma non mi sono arresa e alla fine ce l’ho fatta. Biglietti per Pompei. Nick Cave tra le rovine. Già solo a dirlo sembrava poesia. Al nostro arrivo abbiamo avuto un imprevisto con l’albergo prenotato, uno spostamento, una deviazione, e come spesso accade nella vita, le deviazioni si rivelano sentieri perfetti. L’hotel che ci ha accolte si trovava esattamente di fronte a quello dove alloggiava Nick Cave. E io ho imparato nella mia vita, a non sottovalutare certi incastri. Quella sera, quando il sole ha cominciato a calare e le pietre si sono fatte ombra, tutto è diventato attesa. E poi, finalmente, lui accompagnato da Colin Greenwood. Nick, per me non è solo un musicista, non è solo un poeta: è un gigante che si muove tra il sacro e il profano, tra il dolore e la redenzione, con una maestria che lascia senza fiato. Immenso è forse l'unico aggettivo capace di catturare la vastità del suo essere. Ogni parola, ogni nota, sembra scavare a fondo nell'animo umano, rivelandone la fragilità, la bellezza, ma anche la brutalità con cui affrontiamo l'esistenza. Lui è il poeta del dolore e della bellezza, capace di scrivere versi che spezzano il cuore e allo stesso tempo lo elevano. Ogni sua canzone è un rituale, un atto di creazione e distruzione, di vita e morte, dove la musica diventa sacra e la parola diventa verità. Le sue canzoni sono preghiere e grida, dolci sussurri e furiose tempeste, capaci di abbattere barriere emotive che neanche sapevamo di avere. La sua voce è un richiamo, una forza che ti risucchia e ti spinge a guardare dentro te stesso. C'è qualcosa di antico e primordiale in lui e in quello che fa, una potenza che sembra uscire dalle profondità della terra per parlare a ciò che di più autentico c'è in noi. Eppure, anche quando ci racconta del dolore più profondo, c'è sempre una scintilla di redenzione, una speranza nascosta, come se solo attraverso l'oscurità potessimo veramente vedere la luce. Lui, è capace di farti sentire tutto, senza filtri.

Accanto a me, mia figlia. Lei che è cresciuta ascoltando in sottofondo le sue canzoni in casa, in auto, nei viaggi. Una tredicenne che qualche giorno prima ha vissuto il concerto della sua cantante preferita: Olivia Rodrigo, ma che lì, davanti a quell’uomo ha compreso qualcosa di diverso. Prima della fine del concerto, a pochi metri di distanza da noi c’era lei: Susie. Come si racconta la luce? Come si descrive la grazia? Susie è questo: un angelo. Musa di capolavori come “Galleon Ship”. Di una bellezza disarmante e di una dolcezza che scioglie ogni barriera. Ho avuto la fortuna di scambiare con lei qualche parola, e in quel breve dialogo ho sentito una connessione fatta di delicatezza e comprensione, anche nel modo in cui ha parlato con mia figlia, con una dolcezza materna. Per me è stato uno dei momenti più toccanti, un incontro tra generazioni, tra donne, tra anime gentili. Quella notte ho dormito poco. Dentro avevo troppa vita, trappa memoria risvegliata. La mattina seguente siamo uscite per far colazione. Davanti all’ingresso del suo hotel si era formato un piccolo gruppo di persone. C’era quella quiete particolare che precede qualcosa di sacro, quella sospensione che non nasce dal caso, ma dal sentire. Un’attesa gentile, come se tutti sapessero che sarebbe accaduto qualcosa e che bisognava meritarselo, restando. Non ci siamo dette nulla, io e mia figlia. Ci siamo semplicemente fermate. Quando Nick è uscito, accompagnato dal suono delle campane, tra le mani stringeva delle “wild roses” donate poco prima da una donna a Susie, tenendole strette come se fossero un piccolo tesoro. La prima parola pronunciata a tutti noi è stata: “THANK YOU”.


Poi, il gesto. La domanda. “Posso fare una foto con te?” E Nick Cave che si avvicina con quella sua altezza d’anima. È difficile spiegare cosa succede quando incontri qualcuno che, con le sue parole e la sua musica, ti attraversa l'anima da anni. È come se tutto si fermasse per un attimo: i pensieri, il tempo, la distanza. È stato uno di quegli incontri che non sai bene come raccontare, perché le parole sembrano sempre un po' più piccole di ciò che hai provato. C'era la sua voce, ma c'era soprattutto la sua presenza, calma, intensa, viva e potente. Perché non è solo un fan che incontra l’artista che ama. È qualcosa di più. È tutto quello che la sua voce ha curato dentro di me, tutto ciò che è morto e che è rinato sulle sue note. Nella sua presenza immensa e gentile. Alla fine, è questo che fa la musica. Ci raccoglie, ci tiene insieme anche quando ci sentiamo persi. Dentro una canzone risiede un amore finito, un lutto che ancora fa male, la nascita di un figlio, il primo viaggio da soli, una risata che pensavamo dimenticata. La musica è una casa senza porte e muri. Ci entri e ci ritrovi intera la tua storia. Ci sono le parole che non sei mai riuscita a dire, i silenzi che ti hanno attraversato, le notti in cui non sapevi a chi affidarti. È tutto lì, nelle parole che sembrano scritte solo per te. E quando ascolti Nick Cave con quella voce che graffia e consola nello stesso istante, capisci che non è solo musica, è memoria, è ferita che canta. È preghiera laica per chi resta e per chi se ne è andato, un posto in cui puoi sederti accanto al tuo dolore e non sentirti sola. Perché alla fine, dentro la musica, ci siamo già tutti. Con le nostre vite interrotte, con quelle ricucite. Con le assenze che pesano e le presenze che salvano. Dentro la musica, ci siamo, e ci ritroviamo.

