All’Ippodromo di Milano, ieri sera, si ballava nel fango come se fosse un rito collettivo. Circa 34mila persone per assistere al concerto di Olly, che non è più soltanto un ventenne uscito da Sanremo, ma un fenomeno di massa col piglio della rockstar. E te lo vuole far capire da subito, perché il concerto si apre con Vasco Rossi sparato in filodiffusione: non un vezzo nostalgico, ma una dichiarazione di intenti. Olly non scappa dal paragone. Ci gioca. Se lo prende sulle spalle come sentendosi un figlio illegittimo. Infatti lo imitano già nei movimenti: avanti e indietro sul palco, mani sul pacco e in ginocchio di fronte al chitarrista. Ma il suo live La Grande Festa (giovedì 4 settembre si replica) è un continuo attraversamento di mondi. Si passa dal “tunz tunz” a momenti quasi springsteeniani, con sax e violino sostenuti da una band monolitica. Dalila Murano, in particolare, alla batteria picchia come un fabbro.

Tra una ballatona urlata a squarciagola e un giro di Montenegro scolato sul palco, sfilano i pezzi che hanno costruito la sua rapidissima scalata: Polvere, Quei ricordi là, Bianca, Balorda nostalgia. E quando arriva Una vita, il pubblico esplode perché riconosce la sincerità disarmante di uno che non ha paura di raccontarsi fino in fondo. Spuntano pure come ospiti Emma e Enrico Nigiotti, ma spariscono affogati nel muro sonoro studiato per mettere in risalto un solo protagonista. Persino l’appello sulla guerra sembra di quelli che si fanno con il gomito appoggiato al bancone di un bar: “Solidarietà a quello che sta accadendo a Gaza, fanculo a tutte queste stronzate”. Ma il vero segreto di Olly (e del “mio fratello” July) non è solo la capacità di scrivere canzoni da stadio in così poco tempo. Il segreto è anche grammaticale.

Perché Olly sbaglia i congiuntivi. Canta “non mi aspettavo che ti innamoravi” invece di “innamorassi” in Questa domenica, ma anche in altri pezzi compie lo stesso stratagemma. Un errore? Macché. È la stessa cosa che faceva Vasco quarant’anni fa: trasformare la lingua scritta in lingua parlata. Scegliere l’indicativo non perché non conosce la regola, ma perché vuole parlarti come in mezzo alla strada, o come in chat su whastapp. Suona meglio, fila col ritmo, arriva tutto più diretto. È una forma di empatia pop, anche se mascherata nel rock. Tu lo ascolti e pensi: anch’io parlo così. E il gioco è fatto. Per questo è così credibile. Non è un caso che i suoi fan non siano solo ragazzini: ieri sera c’erano trentenni, quarantenni, famiglie intere. Perché Olly non rappresenta la rivincita dei ghetti di cui parla la trap, ma la voglia di cantarsi addosso la vita vera con le sue imperfezioni. Anche sbagliando i congiuntivi.
