Gira sui social un rumor che sembra avere un certo fondamento: HBO avrebbe concluso il casting per la nuova serie di Harry Potter. Tra le scelte più discusse c’è quella di Paapa Essiedu, acclamato attore di colore, per interpretare Severus Piton. Ma è davvero un problema? Per me sì, ma non per le ragioni che avete in mente. E se state leggendo questo articolo sperando in uno starnazzare contro le principesse Disney di colore, potete anche chiedere e tornare su Instagram.
Le starnazzanti paperelle dell’esercito anti-woke, per evitare accuse di razzismo, potrebbero appellarsi ai tecnicismi: "Eh, ma la Rowling descrive Piton come pallido e giallastro, quindi ovviamente caucasico!". Non è questo il punto. Sappiamo bene che il vero problema è un altro, anche perché, quando Hermione è stata interpretata dall’attrice di colore Noma Dumezweni in The Cursed Child, a teatro, le critiche non sono mancate nonostante il fatto che nei romanzi non venga mai descritta esplicitamente come bianca.
Sempre quelle starnazzanti paperelle parlano di tokenismo quando l’etnia o il genere di un personaggio viene cambiato in modo apparentemente arbitrario. Io preferisco chiamarlo woke washing: quella pratica per cui si cerca di mascherare storie vecchie e poco inclusive, come lo sono in buona parte, con una patina di modernità.
È una pratica del tutto inutile? No. Un attore come Essiedu, in un ruolo iconico come quello di Piton, può ispirare una nuova generazione di spettatori e attori di colore e, per quanto gli venga affidato un ruolo liminale, il magic negro da Hollywood, offre comunque un importante valore simbolico.
È anche una pratica dannosa però, perché perpetua storie vecchie, illudendoci che basti un casting "inclusivo" per rendere il problema meno grave, più accettabile o addirittura - che è la cosa peggiore - già risolto. È, in breve, una mascherata organizzata da un'industria in crisi che non sa più che pesci pigliare. È un po’ come il riciclo dei rifiuti domestici: utile, ma irrilevante se non si affronta il problema strutturale dell’inquinamento prodotto dalle grandi aziende. Cambiare il casting non basta a risolvere i problemi di un sistema cinematografico ancora elitario e poco rappresentativo.
Harry Potter è, in fondo, una favola escapista per bambini, non un saggio sulla società. Racconta di un ragazzo che, per privilegio di nascita, è destinato a salvare il mondo. Il mondo narrativo creato dalla Rowling è gerarchico e classista: una scuola d’élite per maghi in cui i talenti innati determinano il successo, lasciando indietro chi non è all’altezza. È una visione che riflette, forse inconsapevolmente, il mito della meritocrazia britannica o l’eccezionalismo americano della Guerra Fredda. Smetterò di ri-guardare i film? Certo che no. Impedirò a mia figlia di leggerne i libri? Assolutamente no. Però perché dovrei aspettarmi che la nuova serie TV diventi improvvisamente più inclusiva di quello che è il materiale originale?
Il vero problema è che continuiamo a dipendere da mondi narrativi nati in un’epoca in cui l’inclusività non era nemmeno un’idea. Li perpetuiamo all’infinito, adattandoli superficialmente al presente con un casting "inclusivo", senza affrontare i problemi strutturali che li caratterizzano o i sistemi di potere che li hanno prodotti. La verità è che probabilmente HBO non ha scelto Essiedu per il bene delle generazioni future, ma per una strategia di marketing che risponde a tre bisogni primari: allontanare la Rowling dall’immagine transfobica che si è creata negli ultimi anni, distanziare il nuovo Piton dall'amatissima interpretazione del defunto Alan Rickman senza offenderne la memoria e… Beh, pubblicità gratis.
Mentre discutiamo del casting di Piton o del colore della pelle di Biancaneve, perdiamo di vista un problema più grande: il sistema produttivo del cinema. Le scuole di cinema sono sempre più costose ed elitarie, gli stipendi nel settore sempre più bassi e precari e, di conseguenza, è permesso di emergere per lo più solo ai figli dei privilegiati. Persone che, per quanto talentuose, spesso non hanno gli strumenti per raccontare storie nuove e autentiche, perché non conoscono la diversità che vogliono rappresentare.
La rappresentazione è importante, ma non può fermarsi al casting. Se vogliamo un cinema davvero inclusivo, dobbiamo abbattere le barriere economiche e culturali che limitano chi può lavorare e raccontare storie in questo settore. Non basta ridipingere vecchi mondi: dobbiamo crearne di nuovi. Altrimenti, continueremo a lamentarci di aver dimenticato l’ombrello mentre ci pisciano in testa.