Dietro alla fondazione Prada c'è un locale piuttosto futuristico. Vagamente alla Mies van der Rohe, si chiama Lubna, come la fidanzatina porca e minorenne di Ranxerox, l'umanoide eroinomane costruito con i pezzi di una stampante e partorito dalla mente folle di Stefano Tamburini. Ma qui stiamo a Milano, non a Roma. È la capitale della discografia italiana. Siamo a poca distanza da dove erano siti i primi uffici della ex Cgd, oggi Sugar, ma stasera ci paga da bere la Warner. Perché il nuovo album di Annalisa "Ma io sono fuoco" è roba della Warner. L'appuntamento è alle 9 e mezza, ma l'impressione è di essere arrivati un po' in anticipo. C'è ancora poca gente, ma i due riccioluti dj stanno già suonando e il bar, ben fornito di bottiglie è già attivo. Il menù è composto da cocktails che portano il nome delle canzoni cantate da Annalisa e abbiamo la conferma che l'antenato del Negroni, ovvero l’Americano (“Avvelenata” sul menù) sta riprendendo piede in città. Tutta colpa dei fiorentini che si son spostati in massa nella Milano da bere.

Al centro della sala c'è un letto matrimoniale disfatto. Sopra vi sono adagiati un microfono e gli strumenti con cui si esibirà Annalisa insieme alla sua band. Due giovanissime giornaliste di Chi, intanto, si avventurano diffidenti per il locale e ordinano un gin tonic. Dal bancone c'è un'ottima prospettiva sulla scena, che inizia a popolarsi di personaggi. Difficile per il momento distinguere gli attori dalle comparse. Nel via vai un ragazzo dalla faccia simpatica, gli occhi sottili, il cappellino e le sneakers s'intrattiene con due belle donne, madre e figlia, due gocce d'acqua. Mi dice una collega che quello è Davide Simonetta, l'autore di Annalisa, quello che durante lo scorso San Remo scriveva per ben cinque artisti in gara contemporaneamente. Nella sala a fianco è posizionata nella penombra un’installazione artistica con sole foto di Annalisa distesa in varie pose su un letto dalle lenzuola bianche. Mi ci avventuro. Domando a due ragazze di passaggio cosa ne pensino. Apprezzano, Annalisa è sempre perfetta, non solo in foto, ma pure dal vivo. Domando loro se la conoscano di persona e mi rispondono di sì perché sono le fidanzate dei suoi musicisti. Proprio in quel momento arriva il batterista, Dario Panza. Mi dice di suonare da quattro anni con Annalisa, prima stava a Torino con Willie Peyote. Di lì a poco si esibirà suonando un pad elettronico, anche lui seduto sul letto disfatto dalle lenzuola bianche insieme con Annalisa. Ci separiamo, torno al bancone.

Sotto il falso nome di “Amica”, ordino anche io un Bulldog gin tonic, come le giornaliste di Chi, che nel frattempo sono sparite. Non avendo ancora potuto ascoltare “Amica”, provo a immaginare come potrebbe essere il pezzo sulla base del sapore del gin, ma non avendo assunto droghe sono lontanissimo dall’esperienza della sinestesia. Meglio attaccare bottone con un gruppetto di gente dall’eleganza vertiginosa, seduto poco più in là. Sono i ballerini e le ballerine di Annalisa. Anche loro lavorano con lei da tre-quattro anni, hanno più o meno la mia età. Tutta la squadra di Annalisa è composta da gente giovane, spigliata, brillante ed è una bella atmosfera. Sono tutti così loquaci, sorridenti, o forse è solo un’impressione alcolica. Effettivamente i cocktails sono così ben miscelati che scendono giù leggeri come un estathe al limone. Nel frattempo, la gente inizia ad affollarsi attorno al grande lettone. C’è qualcosa di matriarcale in questo grande giaciglio che esercita una forza magnetica nei confronti dei presenti. I fumi del gin mi rivelano un’epifania e in un momento di trance mistica mi rendo conto che Annalisa è la grande Dea madre della serata. La Dea Bianca dai capelli rossi, Estia, al centro del focolare. Okay, “Amica” inizia decisamente a farsi sentire. I cellulari si sollevano come i girasoli quando sorge il sole, perché ecco la diva fare il suo ingresso con il resto della band. Aveva ragione la fidanzata del batterista, Annalisa è perfetta anche dal vivo, e attacca a cantare. Il primo pezzo, “Maschio”, già pubblicato da un po’, lo confondo per un attimo con “Sinceramente”, ma mi sbaglio, forse perché non figura nella lista dei drink. Finito il pezzo, si abbassa la tensione, ed è il momento di “Piazza San Marco”, nella lista delle bevute corrispondente all’aperol spritz. Purtroppo, essendo dopo cena lo spettacolo, non l’ho voluto assaggiare. Una vera hit arriva subito dopo. Giro di basso sintetico stile new wave che fa volare. Corro al bancone e ordino un lallier pronunciando il nome in codice “Emanuela”, titolo del pezzo in esecuzione. E’ una hit, è una hit, ripete chi ascolta e inizia a ballare con grande maestria a differenza mia che inizio a muovermi in modo molto scoordinato senza rendermene conto. A fianco a me c’è un gruppetto di tre ragazze, due di queste dicono all’amica che stanno per uscire. Lei rimane. Si sbagliano, commento, si stanno perdendo una hit. La ragazza concorda. Chiacchierando mi dice di essere l’interior designer di Annalisa e che attualmente le sta rifacendo casa. Il pezzo finisce e ne inizia un altro. Cambio idea. “Esibizionista”, è questa la vera hit, che si apre con quel parapparararà così irresistibile. E’ il tormentone che mancava quest’estate. Mi accorgo dunque che sul menù dei drink il pezzo più figo di questo album corrisponde ad una bevuta che non ho ancora assaggiato, l’espolon paloma. Ow yeah.


Finito il concerto rimedio immediatamente alla mancanza dato che, tra l’altro, pure Annalisa si è spostata verso il bancone per prendersi un calice di prosecco. Ordino anche io, ed effettivamente il paloma è la miscela perfetta per perdere definitivamente la dignità. E poi, in fin dei conti è tutto gentilmente offerto dalla Warner, quindi, perché non approfittarne? Finalmente vinta la timidezza tento di avvicinarmi ad Annalisa, ma circondata dai fotografi, amici, colleghi, conoscenti, managers, consulenti, maghi, scalatori di grondaie, spaccapietre e filosofi, è inarrivabile. Riesco ad infilarmi nella prima fila di quel cordone umano che ruotando in cerchio come in un rituale Yezidi, la circonda. Sono tentato di iniziare a intonare il canto a Sheitan, ma è meglio di no. Quel Paloma era di troppo, però al tempo stesso mi aiuta ad imbeccare il Kairos. Mi presento alla diva portando alto il vessillo di Mowmag. Annalisa è molto cordiale, ci mettiamo in posa per il selfie, premo il tasto per scattare, ma è quello sbagliato. Si spegne lo schermo. Annalisa maternamente mi rimprovera, ritento e con successo scatto la foto, dopo di ché provo a farle qualche domanda, ma c’è casino. I dj riccioluti hanno ripreso a suonare e c’è troppa gente che la desidera. Concordiamo di parlare con più calma dopo. Così esco dal cerchio magico yezidi e sento la magia abbandonarmi, ma mi rimane un sorriso ebete stampato sul viso che non passa inosservato in un gruppo di ragazze esattamente davanti che si mettono a ridere. Rido anche io, alzo il bicchiere, alla salute. Per la prima volta nella serata non sono io a fare domande, ma sono loro a chiedermi chi sono. Rivelo la mia identità e loro fanno lo stesso. Sono lì perché lavorano per la Warner. Devo a loro la mia pessima condizione psicofisica, e le ringrazio dunque per tutte le bevute consumate, ma nel frattempo non perdo d’occhio Annalisa e mi accorgo che sta succedendo qualcosa. Un nome passa di bocca in bocca e giunge al mio orecchio, è Bresh, no è Tedua, ma no, è Bresh, no, son tutt’e due, sì son Tedua e Bresh che hanno voluto fare una sorpresa ad Annalisa. E’ già l’una e mezza e il cerchio magico non è più quello degli yezidi persiani, ma ormai ha assunto la forma di un Cherubim biblico (Ezechiele 1 e 10) ovvero una ruota dentro ad una ruota con occhi tutto intorno. Esco a prendere un po’ d’aria e fuori incontro una signorina che si sta fumando una sigaretta. Mi pare di conoscerla. Torno dentro, mi rendo conto che quella donna era Emma Marrone. Torno fuori ed è sparita. Forse me la sono sognata. No, incontro Filippo Ferrari di Rolling Stones che mi conferma la cosa. Era proprio lei. Riprendo fiducia, ma dura poco, perché Annalisa sta uscendo dalla porta da cui ha fatto il suo ingresso per il concerto. E vabbuò. Rimangono solo i dipendenti della Warner, molto simpatici e cordiali. Mi congedo e prendo la porta. Fuori, Milano è tutta grigia, il cielo pure, la torre Prada svetta nel silenzio vorticoso della notte bucata dai lampioni da cui piove una luce lattiginosa. Il panorama, desolato, è in bianco e nero. Potrebbe insorgere la solitudine, a questo punto, come una vecchia amante che sa bene quando tornare a farsi viva (cit. Er Califfo), ma in testa continua a risuonare quel Parappaparaaaa paraparaparapà e allora sapete che c’è? Che Parappaparaaaa paraparaparapà…

