Parliamo del nuovo governo.
Anzi, no, parliamo di musica e di mercato.
Meglio, parliamo delle esoteriche connessioni tra il nuovo governo e il mercato musicale italiano.
Succede ciclicamente, arriva qualcuno che, magari convinto di poter approfittare del vento protezionista e nazionalista che tira ultimamente, quello delle varie sovranità, che nulla hanno a che fare con i principi no global (non scherziamo, loro, quelli che andranno a governare, erano quelli che manganellavano felici alla Diaz e a Bolzaneto, nasce tutto da Fini). Succede ciclicamente che arriva qualcuno che tira fuori questa cosa della protezione radiofonica delle italiche canzoni.
Si tira sempre per la giacchetta la Francia, da tempo attiva in questa ottica, ma i francesi sono anche quelli che non adottano parole inglesi nel loro vocabolario, alla faccia del Made in Italy, e si chiede che in radio passino almeno il 50% di canzoni italiane, così, senza ragioni altre che il patriottismo e ben lungi dal riguardare il merito, per altro messo lì, come termine, a fianco all’Istruzione nel ministero affidato a quello che smantellato la scuola con la Gelmini dopo aver scritto la Costituzione della Lega con Miglio (sta cosa che uno che voleva la Padania oggi sia uno che fa il ministro nel governo più nazionalista di sempre, giuro, mi manda fuori di testa).
Ora, ok, siamo sotto un governo di destra e sarà tutto un parlare di “prima gli italiani” e “spezzeremo le reni alla perfida Albione”, che nel mentre le reni se le sta spezzando da sola, a occhio, e che invece studierei bene proprio in chiave di protezionismo e sovranità alimentare, ché la Brexit sta portando alla sua implosione e mi sembra che inseguire gli esempi di Polonia e Ungheria, in tal senso, non sia esattamente la mossa del giaguaro.
Diamo da intendere che siamo i migliori, tutti abbiamo visto i video del tizio che ci spiega come siamo stati noi a inventarci qualsiasi cosa, dal telefono alla radio, passando per l’elicottero, le pile e qualsiasi altra cosa, e diamo da intendere che sia questo il solo modo per fare gli interessi del popolo, salvo poi mettere Crosetto a flirtare con le associazioni di produttori di armi che fino a ieri guidava, alla faccia del popolo, ma se è vero come è vero che l’arte anticipa sempre i tempi, e Dio abbia pietà di me per aver usato la parola arte andando a parlare del pop italiano d’oggi, anzi no, Dio mi incenerisca adesso con un fulmine, tornando a essere quello rancoroso e vendicativo del Vecchio Testamento, non merito pietà, diamo da intendere quel che ci pare, ci mancherebbe altro, chi vince decide le regole e la narrazione, al punto che siamo la nazione al mondo con meno presenze straniere nelle classifiche, è un dato di fatto che neanche un revisionismo storico di quelli cui immagino dovremo abituarci potrebbe mai cambiare.
L’ultimo in ordine di tempo ad aver invocato il proteggere la musica italiana è quel Morgan che poi si lascia andare a consigli non richiesti proprio alla Meloni, in atto da anni, e per capirlo basterebbe dare un’occhiata il venerdì pomeriggio, escono verso le 17:30 le classifiche musicali e fanno spesso molto più ridere delle vecchie gag dei Monty Python, fidatevi, se ogni tanto ci passa, praticamente mai in vetta, gente che nel resto del mondo domina, da un The Weeknd a un Ed Sheeran, passando per una Dua Lipa, un Imagine Dragons, una Beyoncé, c’è da stupirsi quasi fino a farsi venire le convulsioni, perché da noi è tutto un proliferare di Bresh, Paky, Rhove, Rkomi, Blanco, Thasup, Night Skinny e via discorrendo, ogni tanto giusto un Ernia, tanto per lasciarci intuire che sono italiani anche tutti quei nomi lì, tutti non riconducibili alla categoria arte, lo dico perché nel mentre Dio non mi ha ancora incenerito e vorrei evitare di passare, in vita, per uno che pensa che Shakerando o La coda del diavolo abbiano nulla a che vedere con le Muse, Dio incenerisca loro, piuttosto.
Una sorta di protezionismo nazionalista partito naturalmente dal basso, quindi, di quelli che in effetti dovrebbero lasciar intendere che dietro ci sia una qualche ideologia che fa riferimento al Dio, patria e famiglia di antica e mesta memoria, ma che nei fatti è frutto di una sorta di libero arbitrio mal utilizzato specie dai giovani, con la complicità della Fimi, del resto diretta da colui che sta alla musica come Tavecchio al calcio, a aver demandato a Spotify le briglie di un cavallo che convinto di essere un Lemming si sta buttando di gran corsa giù da una scogliera a picco sul mare.
Questo in barba a quel che chiunque abbia studiato un minimo la materia ben sa, e per chi non lo sa la visione di The Playlist, serie Netflix che inchioda a una tavola come una rana di lì a essere sottoposta a prove degne di un Volta, la azienda di Daniel Ek, vera rovina del mondo musicale (vera rovina prima che il connubio Simon Cowell e Tik Tok, presto sui vostri schermi, provi a fare di peggio, c’è da scommetterci).
Da anni, in sostanza, e la parola sostanza potrebbe nascondere, neanche troppo, l’unica soluzione che ci rimane per sopravvivere a tutto questo, i più giovani, cui la triade Spotify-discografia-Fimi, che poi stanno lì a toccarsi a vicenda come in una gang bang in cui, però, finisce che se lo prendono tutti nel culo, ha concesso il lusso di decidere il mercato, seppur in assenza di economie investite di propria tasca, parlo dei fruitori, i giovani, appunto, da anni i più giovani hanno estromesso dal mercato italiano la musica straniera, innalzando quei muri che ora sembra andranno a dividere Finlandia e Russia, senza neanche bisogno di assoldare ranger pronti a sparare a chicanos che provassero a entrare.
Si ascolta solo musica italiana, brutta musica italiana, bruttissima musica italiana, che per altro quasi sempre ripropone con un paio di anni di delay quanto di brutto, bruttissimo è circolato altrove, senza più neanche il fascino della novità e, soprattutto, senza il talento di chi almeno ha provato a tirare fuori da un cilindro marcio qualcosa di nuovo. Ogni anno, quindi, quando la stessa Fimi tira fuori la classifica degli album più venduti nell’anno precedente, è tutto un susseguirsi di quei nomi lì, con artisti, penso a Marracash, per dire, o allo stesso Rkomi, nel pop pop giusto Ultimo e da adesso i Pinguini Tattici Nucleari, in Top 50 anche artisti, sic, con più lavori, e dei giganti d’oltralpe, oltremanica e oltreoceano nessuna traccia, o quasi.
Una anticipazione di quel che, sembra, ci aspetta su altri fronti, intuita dal mercato discografico e ora lì pronto a manifestarsi anche in altri settori, l’agricoltura, il Made in Italy (scivolone per chi si ammanta di spirito patrio, quell’Italy lì) e tutto il resto, patriottici, protezionisti, anche se nel mentre si grida all’Atlantismo, viva l’incoerenza. Forse una scusa per poter mandare a puttane gli accordi internazionali, sempre Polonia e Ungheria in testa, pronti poi a fare gli interessi dei soliti noti, anche se qui a parlare è un uomo pieno di pregiudizi, quei pregiudizi che non mi faranno mai gioire per uno come Sangiuliano alla Cultura (e dire che pensavo peggio di Franceschini nessuno) e che non mi fa ascoltare neanche sotto tortura tutta quella merda che, appunto, da anni la Fimi premia con dischi di platino e d’oro posticci come certi parrucchini, piuttosto che ascoltare quei nomi mi asporto con un ferro da lana i timpani. Di fatto, però, la nostra sovranista Via Campesina l’hanno guidata Rkomi e Blanco, i nostri campesinos.