Per un po’ non si è fatto che parlar di lei. La sua saga, I leoni di Sicilia, ha venduto oltre seicentocinquantamila copie, un evento raro per un’italiana. Michela Murgia forse non vendeva così. Vannacci, ecco lui sì. Anche se Stefania Auci è, o almeno dovrebbe essere, l’opposto del generale che pubblica in autonomia i suoi pensieri sparsi. Una scrittrice pubblica e prodotto di un buon editing, autrice eminentemente letteraria con velleità corali. Ma mentre per Vannacci abbiamo l’antidoto (tornare a leggere von Clausewitz, uno dei pochi generali che valga la pena di iniziare a studiare riga per riga) per Stefania Auci non abbiamo nessuna contromisura non farmaceutiche. Per dire, non abbiamo una mascherina contro il proliferare di profili adeguati ai nostri tempi: scrittori e scrittrici avvezzi a scritti atemporali per intenzione, più che per un successo effettivo delle loro opere. Scrittori che si confrontano con il presente usando le opere come porta di ingresso per un mondo fatto di festival, incontri, interviste, e quel poter dire la mia su tutto, con la scaltrezza dei principianti (su qualsiasi tema) che mascherano le mancanze con la verve, la passione. Stefania Auci è scrittrice di prosperi futuri. Anche se nel frattempo i dati ci dicono che in Italia non si legge più, almeno qualcuno potrà continuare a difendere la funzione primaria della letteratura popolare italiana: insegnare l’italiano (e fermati).
Classe 1974, nasce a Trapani ma vive a Palermo. Il classico, poi la laurea in Giurisprudenza. Un breve periodo a Firenze, mentre il marito rimane in Sicilia per un impiego pubblico appena ottenuto. Due figli, la passione per Tomasi di Lampedusa, diventa insegnante di sostegno. Il suo romanzo d’esordio, preceduto da racconti e scritti più brevi, è Florence (2015) a cui seguirà un pamphlet contro il decreto Buona Scuola di Matteo Renzi, scritto a quattro mani con Francesca Maccani nel 2017, La buona scuola appunto. Altri due anni e arriva la prima parte della saga sulla famiglia Florio, I leoni di Sicilia (Nord, 2019). Un successo internazionale, contratti firmati negli Stati Uniti e in vari Paesi europei, oltre trenta traduzioni ufficiali, centinaia di migliaia di copie vendute, copertine classiche, pudiche, ritratti di un altro tempo. Anche la scrittura vorrebbe essere di un altro tempo, finendo per scimmiottare gli amati scrittori del passato. La sua prima impresa da scrittrice? Una fanfiction su Holly e Benji. I suoi numi tutelari, oltre al già citato autore de Il gattopardo, De Roberto, Prezzolini, Thackeray. Una cultura che, come lo studio fatto per I leoni di Sicilia, sa celare nella scrittura. Li sa celare così tanti che è difficile vederli… Lei è docente moderna. Non dà compiti per Natale (tanto li copiano tutti dal web). Suggerisce libri da leggere e attende che passino le settimane di riposo. Potrebbero vedersi una serie TV. Per esempio quella che uscirà per la regia di Paolo Genovese e ispirata proprio alla sua fortunatissima saga. Riposare, si riposano. Dopo I leoni di Sicilia arriva L’inverno di Sicilia. La saga parte 2. Nel complesso moltissime pagine che potreste anche risparmiarvi, nonostante pare che soltanto Davide Brullo abbia saputo “stroncare” (un mestiere duro) l’osannato bestseller. Un Beautiful in forma scritta, la cui destinazione, in effetti, non poteva che essere una serie.
I suoi ultimi interventi sono curiosi. Al Festival della letteratura di Camogli ha denunciato la velocità dei nostri tempi, dove tutto deve essere sempre pronto e fatto in poco tempo. Siamo cronofagi, avrebbe potuto dire, ma non l’ha detto. Sbraniamo il tempo. La colpa sarebbe, secondo il filosofo Jean-Paul Galibert, del capitalismo. Ma è chiedere troppo un approfondimento, qualcosa in più. L’idea è una sola: che le opinioni vengano tirate fuori immediatamente, in qualche modo perché chi le partorisce è vittima di quello stesso meccanismo malato, la cronofagia, per cui sei a un evento culturale e non puoi non avere un’opinione. In questo senso le estemporanee di Stefania Auci sono meno che tesi, poco più che reazioni a caldo. Sono reazioni a freddo, come il caffè lasciato nella moka dalla colazione. Leggermente più amare dell’intuizione. Ma le banalità si perdonano a tutti, anche a lei. Ma questa leggerezza concettuale, una scrittrice, forse non dovrebbe permettersela. Così, quando scegli di commentare il caso dello stupro di Palermo, rivolgendoti a chi accusa la scuola di avere una fetta importante delle colpe, è giusto dire che “il patto educativo tra scuola e famiglia si è indebolito a seguito della progressiva delegittimazione del ruolo della scuola nella vita dei ragazzi”. E che “se prima c’era una condivisione, un’unità di voce e di intenti tra famiglia e scuola (se prendi una nota, nessun genitore dubitava del fatto che fosse «meritata»), ora i ragazzi si sentono tutelati da genitori con il ricorso facile, che non ammettono la messa in discussione del figlio e, di conseguenza, ne giustificano a priori ogni atteggiamento”. Ma la soluzione per una scuola in liquidazione non è forse proprio quella di tornare a difenderla senza slogan e arie progressiste? Tornando a dare valore all’impegno, al merito e alla disciplina? Per esempio dando compiti per le vacanze?