Eminem è Eminem. Star qui a presentarlo, oggi, sembra davvero superfluo. Che dietro Eminem, nome d’arte, ci sia Marshall Mathers lo sanno anche i sassi, almeno da quando, una vita fa, il nostro ha iniziato a fare sfaceli con le sue barre, per altro aprendo anche in Italia il via a quella che ai tempi suonava per l’ennesima volta come la novità del momento, il rap, ma che da quel momento in poi non se ne sarebbe più uscita dalle classifiche. È infatti un fatto che siano stati proprio Eminem e il suo film 8 Mile a imporre il rap nell’immaginario di tanti ragazzini, portando poi al primo posto nella classifica di vendita di Mondo Marcio, e poi di Fabri Fibra, e poi di tutti gli altri a seguire, lì con le major, non più un fuoco di paglia o un bagliore solitario, ma proprio un cambiamento di marcia.
Quindi Marshall Mathers, nome all’anagrafe, Eminem, nome d’arte, o street name, per dirla con le parole con cui qualche tempo prima entrò nelle nostre case per voce di Frankie Hi NRG MC, ospite del salotto buono di Maurizio Costanzo. Solo che Eminem, nome d’arte, ha costruito il suo successo, e una carriera che a oggi, che lui ha cinquantuno anni, non ha precedenti, dando a lungo voce a un suo alter ego, Slim Shady, quello cattivissimo, scorretto, scurrile, violento, protagonista dei suoi primi album. Alter ego che ultimamente era andato in sonno, come certi terroristi che attendono una telefonata cifrata che li armi per farsi saltare in aria da qualche parte. Oggi The Death of Slim Shady (Coup de Grace), dodicesimo album di Eminem, è fuori ovunque, per dirla con questa bruttissima espressione tipica di questi bruttissimi tempi, e sembra che per Slim Shady non ci sia più speranza. Un concept album, come lo stesso Eminem ci ha tenuto a spiegarci, quindi da ascoltare seguendo le canzoni non a caso, come prevede Spotify, ma seguendo le indicazioni da lui stesso date con la tracklist. Un concept album che racconta appunto la fine di Slim Shady, anche se la storia del mondo dello spettacolo, Hollywood in testa, ci ha ben spiegato come nulla sia mai definitivo, neanche la morte.
Le canzoni che compongono questo lavoro, a suo modo già destinato a entrare nella storia del rap e della musica contemporanea per almeno due validissimi motivi: è un album di Eminem, in primis, è l’album in cui Eminem uccide Slim Shady; poi, portano la firma, a livello produttivo, dello stesso Eminem, oltre che del suo storico pard, e che pard, Dr Dre, e di Luis Resto. Va detto che, musicalmente, l’album è altalenante, nel senso che resta pur sempre un album potente, del numero uno assoluto, ma non sempre le basi tengono, con Drè che spicca sugli altri due in maniera impressionante. Le rime, invece, sono in classico stile Em, taglienti, a tratti egoriferite, non nel senso di megalomani, ma nel senso che fanno riferimento al suo repertorio precedente. Volgari, violente, taglienti, provocatorie, tutto quel che ci si deve aspettare da un disco di Eminem, comprese trovate geniali da par suo.
Aleggia, ma qui ci sta forse una lettura biografica. Io e Eminem siamo quasi coetanei, tre anni di differenza, e mi picco di essere stato uno dei primi a raccontarlo in Italia, ai tempi, in un magazine mainstream, Tutto Musica e Panorama, non a caso poi Mondadori mi chiamerà nel 2000 a tradurre i testi del suo primo libro ufficiale, Angry Blonde. Ai tempi non c’era Google ad aiutarci con le traduzioni dei testi e capire cosa dicesse era complicato per l’ascoltatore medio. Aleggia, dicevo, una certa nostalgia, quasi da rimpatriata, o quasi da chi sa che nel mentre il mondo è cambiato, non necessariamente in meglio, anzi, e quindi si sofferma a rivivere modalità e tematiche del passato, con lo sguardo invecchiato ma ancora guizzante.
La partenza dell’album, ma questo è puro stile Eminem, è il cuore del suo lavoro attuale. Renaissance è forse il pezzo più importante di tutto questo lavoro e Em se lo spara subito, in partenza. Da una parte la morte di Slim Shady viene raccontata, letteralmente, dall’altra è una difesa strenua e veemente del genere di cui Slim Shady, e anche Eminem, sono stati e sono leggende, il rap. Viene citato l’esordio del Wu Tang Clan, come a dire, c’è chi sarebbe disposto a criticare anche l’incriticabile, e poi viene fatta una difesa d’ufficio anche di personaggi come Kanye West, perculato altrove nel disco, perché solo chi è della scena può, sembra volerci dire. Kendrick Lamar, che forse di difese non avrebbe bisogno, è a sua volta citato, lì a indicare un altro paletto di questa forchetta ampia che ospita così tanta qualità. Nessuno tocchi il rap, a parte i rapper stessi, questo il punto. Poi è la volta di Habits, brano dove si parla di dipendenze, e nel quale oggetto delle attenzioni di Slim Shady è la comunità LGBTQ+, da sempre oggetto dei suoi strali. La presa per i fondelli a DaBaby, sostanzialmente annientato per le sue accuse omofobe, è lì, a futura memoria. Nel brano, Eminem parla ovviamente anche d’altro, le rime sono tante, in classico stile Em, facendo una sorta di punto sulla sua carriera e la sua vita fin qui. La successiva Trouble, che è una canzone solo se si applica al termine i canoni dei Bad Religion, il brano sta sotto il minuto, se la prende coi giovani della Gen Z, rei di non idolatrare abbastanza colui che del rap è la leggenda assoluta, a suo dire e non solo a suo dire. Bomba all’idrogeno in rima che non lascia ferite né macerie. Una partenza in accelerazione costante, tanto per far capire a cosa andremo incontro.
Dopo l’intermezzo parodistico - parodistico di se stesso - col nostalgicissimo, musicalmente, Brand New Dance, sorta di revival di quel che era il periodo nel quale Eminem si imponeava al mondo, il rap a cavallo tra i due millenni, c’è come un pit stop. Si prende fiato, nei pochi secondi che un disco, sempre che lo si ascolti in disco, offre a disposizione, per poi ripartire in tromba. Il disco sembra ricominciare. Sempre con ritmi sostenuti, un uno due di quelli che stenderebbero un bue a mani nude, Evil, e la successiva Lucifer, sono un viaggio nell’introspezione di Slim Shady, o forse di Eminem, o forse di Marhsall Mathers, vallo a sapere, dove il nostro parla di sé, anche della sua incapacità di tenersi a freno, lì a provare sapendo di dover e voler provocare per essere realmente se stesso, con la consapevolezza di avere un seguito fedele, degno di Charles Manson.
Antichrist è un classico pezzo alla Eminem. Sembra un gioco, invece si mena e si mena fortissimo. Una cantilena fintamente infantile, dove a restare esanime a terra c’è la comunità LGBTQ+, come spesso altrove, ma anche e soprattutto P.Diddy, colpito e affondato per la sua recente storia di molestatore. Anche in Fuel Eminem riflette, con al fianco il giovane talento JID, provando a spiegarsi e spiegare il perché di un successo così longevo, modo di flexare piuttosto singolare, tipico di chi sa di avere talento e non dover in fondo dimostrare più niente a nessuno. Il brano è a suo modo un vero inno alla cultura hip-hop, omaggiata esplicitamente attraverso il ricordo di altri due giganti, 2Pac e Biggie contrapposti, en passant, al nano P.Diddy.
Con Road Rage, va detto, Eminem dimostra di essere Eminem più che mai, perché nessuno, oggi, al mondo sembra in grado di poter “giocare” col politicamente scorretto come lui, che lo fa da sempre. Una sorta di inno al bullismo, inteso provocatoriamente come stimolo a affermarsi nel mondo, e al tempo stesso una critica a chi pensa di poter pretendere che il mondo si adegui a ogni singola peculiearità, una vera mina di testo. Houdini è la mega hit che ha avuto il compito, assolutamente riuscito, di riportare tra noi Slim Shady, anche in vista della sua annunciata morte. Un Emenim in gran spolvero a fianco di un altrettanto in gran spolvero Dr Drè.
Guilty Coscience 2, la numero uno è di venticinque anni fa, ripropone lo scontro fisico tra Slim Shady e Marshall Mathers, e già che ci siamo Slim incontra di nuovo anche i tanti competitor - competitor che lui indubbiamente non ha mai visto veramente come tali - da Fred Durst a Ja Rule, passando per il poi di nuovo citato Machine Gun Kelly. Sembra che Eminem voglia fare la pace con tutti, ma è appunto un’apparenza, stiamo pur sempre parlando della voce più dissacrante e potente di tutti i tempi. Poi si va avanti, con l’arrivo del secondo ospite, il giovanissimo Ez Mil, che impreziosisce Head Honcho con barre in filippino, un brano di respiro, si diceva un tempo, molto classico, quindi dimenticabile. Temporary è una canzone piuttosto spiazzante. Una canzone d’amore, sì, d’amore, per sua figlia Hailey, che poi tornerà anche nella conclusiva Somebody Save Me. Un mare di malinconia, in un oceano di irriverenza. Irriverenza che infatti torna in Bad One, dove Slim Shady gigioneggia - questo ha sempre fatto - prendendo a schiaffoni, neanche troppo metaforici sia il solito Kanye West che il pungiball preferito di Em, ultimamente, sia Machine Gun Kelly, lì a parlare a vanvera di appropriazione culturale. Morti entrambi, altro che The Death of Slim Shady. Tocca poi al secondo singolo di lancio, Tobey, ispirata a Tobey Maguire, uno dei vari Spiderman, dove appunto c’è questo dialogo a tre, chi segue la Marvel sa di che si tratta, generazionale, il rap al posto del mondo dei supereroi.
La chiusura è una vera chiusura, atto di scuse ai suoi figli. La già citata Hailey, entrata suo malgrado nell’immaginario dei suoi fan sin dall’esordio, oltre a Stevie e Alaina. La canzone è una sorta di brano spirituale, quasi in aura gospel, e parla di redenzione, di luce, di speranza. Eminem non ha bisogno di essere elogiato, i numeri stanno dalla sua, per guardare a una carriera coi parametri dementi di oggi, 15 Grammy, oltre duecentocinquanta milioni di copie vendute, pure un Oscar, ma soprattutto una riconoscibilità assoluta, la credibilità di chi si è fatto largo, da bianco, in una scena completamente nera, e di chi ha imposto uno stile, a lungo imitato senza mai arrivare neanche vagamente nelle sue vicinanze da centinaia di pretendenti al trono. The Death of Slim Shady (Coup de grace) è un album decisamente alla Eminem, forse anche più cupo e quasi horror che in passato, con il rapper di Detroit che gioca tutte le sue carte, dimostrando che lui non può essere annoverato tra i Big 3 del rap, tutti siamo a conoscenza dello scontro epico a suon di rime tra Kendrick Lamar, Drake e J.Cole, semplicemente perché sta sopra e altrove, giocando un campionato tutto suo, e che campionato. Non sappiamo se a morte seguirà resurrezione, conoscendo Eminem c’è da pensare che potrebbe davvero accadere qualsiasi cosa, quel che è certo è che oggi, luglio 2024, in epoca di musica da ascoltare distrattamente, facendo altro, The Death of Slim Shady (Coup de Grace) è un grandissimo album, importante, pieno di idee che altri dovrebbero metabolizzare per provare, in futuro, a essere ancora tra noi, magari anche per poi inscenare la propria morte. Dio salvi Slim Shady. O forse è meglio di no.