Ogni volta che muore un grande, come è stato con Robert Redford, si dice o scrive: “Con lui finisce il mondo delle grandi star di Hollywood”. Questo è platealmente falso, perché ci si dimentica di almeno un altro paio di generazioni piene di attori che hanno plasmato il concetto di star system nel settore cinema e che, grazie a Dio, hanno almeno statisticamente almeno qualche altra decina di anni da vivere. Penso a Brad Pitt, a Leonardo DiCaprio, a George Clooney, a Julia Roberts. E a Tom Cruise, che ora ha ricevuto l’Oscar alla carriera alla cerimonia dei Governors Awards. Un attore che ha più ossa rotte che premi; ma anche più successo che premi. Forse la differenza sta qui. Le generazioni che si stanno lentamente portando via quel modo di fare cinema, stanno lasciando il posto a generazioni di attori sfacciatamente colti, alcuni dei quali hanno raggiunto la fama con lo streaming, che tuttavia si dedicano volentieri anche a esperienza cinematografiche di nicchia. In sé non un gran problema, finché non si sfocia nel “cinema con la scopa nel culo”. Tom Cruise rappresenta tutto fuorché questa idea di cinema qui.
Il suo discorso, non a caso, è una dichiarazione d’amore a un sistema che viene criticato un po’ da tutti i punti di vista perché alienante, business centrico, cinico, spesso poco profondo eccetera eccetera. Ma è davvero così? L’elenco di persone che questa macchina enorme coinvolge è semplicemente la manifestazione di un’esperienza umana talmente complessa, talmente raffinata, talmente articolata, che è impossibile da rinnegare. E un grande cresciuto in un mondo così lo sa riconoscere. Cruise, non a caso, non ringrazia solo i grandi registi con cui ha lavorato, come Spielberg, gli sceneggiatori, gli scenografi, i coreografi e gli attori. Ma anche gli stuntmen e le persone dietro le quinte e, tra tutti, anche le agenzie di talenti, che noi ci immaginiamo nella figura di una donna in tailleur con il telefono in mano l’empatia di un cattivo Disney. C’è un modo di fare questo lavoro, che Tom Cruise conosce meglio di molti, che ti permette di entrare in relazione con una quantità di professionisti incredibile, tutti degno di rispetto, tutti da considerare nel post giusto al momento giusto. Non importa se si tratta di un film pensato per intrattenere o un film intellettuale, quello che si fa è importante in sé, perché, come dice Cruise, ampia il tuo punto di vista, ti permettere di conoscere il mondo e di comprendere la diversità.
Ma soprattutto ti permette di volare basso, di lavorare sodo, di inquadrare il tuo lavoro in un’ottica non solo meno snob, ma anche meno passivo-aggressiva. Con Top Gun: Maverick, uscito nelle sale poco dopo la fine della Pandemia, Tom Cruise ha regalato al settore cinematografico e alle sale dieci anni di vita, alla pari del Barbenheimer dell’estate del 2023, quando due film di due registi “alti”, Christopher Nolan e Greta Gerwig, riportarono il mondo nelle sale cinematografiche. Perché essere più grati a un Nolan o a una Gerwig, che parlano di bomba atomica e femminismo, che non a Tom Cruise e ai suoi action movie? Parliamo di franchise e facciamo davvero fatica ad accostare altre produzioni a Mission impossible, un’opera d’arte che ha riscritto un genere a partire dal 1996. In The final reckoning, uscito quest’anno, c’è una scena bellissima, impeccabile, complessa, sia in termini di realizzazione che in termini attoriali, ma soprattutto lenta, cupa, silenziosa, drammatica. Quando Ethan Hunt si immerge per raggiungere nelle profondità del mare un grande sottomarino affondato decenni prima, il tempo si ferma, cosa che in un film d’azione non dà esattamente una spinta, soprattutto se la poni oltre la prima metà del film, quando il pubblico si aspetta che gli eventi precipitino. Ma la premessa a questa scena è fondamentale: Ethan Hunt sta probabilmente tentando l’impossibile, ma un impossibile più impossibile di tutto ciò che finora ha dimostrato di poter fare. Tom Cruise scende nel cuore di un buio glaciale e a ogni minuto che passa aggiunge un livello di difficoltà alla sua missione.
A me sembra un’ottima metafora della carriera di Tom Cruise e del suo modo di intendere i film (la capacità dei professionisti che permettono al pubblico di sedersi in una stanza buia e godersi la magia), che dai tempi di Legend e Top Gun, passando per Rain Man, Intervista col vampiro, Il socio, Magnolia, Minority Report e approdando ai Jack Reacher, ai Top Gun, alla fantascienza tra il 2010 e il 2015, ha dimostrato di essere l’uomo delle missioni impossibili, come quella di tenere insieme l’altezza del cinema d’autore e il successo del cinema di massa, spesso intrecciando le due cose in produzioni che hanno fatto la storia del cinema, o finanziando, producendo e sostenendo un modo di pensare la settima arte che non schernisce nessuno, che non esclude, che alza il livello in modo democratico, pretendendo dal pubblico nulla di più che la fiducia che l’arte dovrebbe chiedere, se non vuole essere un modo per soddisfare il proprio ego. L’Oscar alla carriera, allora, non è solo sacrosanto, ma persino poco, per un attore che ha plasmato l’immaginario, che ha saputo essere attore, stuntman, produttore, ma anche divo, star, icona di quel mondo che tanto ama e che noi abbiamo imparato ad amare anche grazie ad artisti come lui.