Storico dell’arte e polemista, critico preparatissimo e fustigatore della politica nei talk televisivi, neo rettore dell’Università per Stranieri di Siena e autore di numerose pubblicazioni sulla tutela del patrimonio italiano e contro l’uso delle opere in stile Blockbuster. Tomaso Montanari alla soglia dei 50 anni (il prossimo 15 ottobre) è di certo uno degli intellettuali di ultima generazione più interessanti e in grado di sollevare questioni che sono in grado di smuovere le coscienze. Nelle ultime ore si è schierato con Maro Travaglio, reo di aver definito Mario Draghi “un figlio di papà” e per questo è stato attaccato da sinistra a destra (da Calenda a Crosetto), ma poco prima avevamo avuto il piacere di intervistarlo capendo che, di certo, fra le sue tante qualità non c’è la diplomazia.
Un lungo dialogo, dove ha toccato moltissimi temi. Dalla ripartenza dell’Italia, su cui si è detto pessimista, al giudizio impietoso verso il ministro Dario Franceschini («dopo il fallimento della ‘Netflix della cultura’ dovrebbe dimettersi»), passando ai veri problemi nel campo della cultura che sono soprattutto occupazionali («a Siena non c’è neanche uno storico dell’arte») o provocazioni non poi così campate in aria: «Se domani chiudono i musei di arte contemporanea se ne accorge solo chi ci lavora», senza mancare di intervenire in diatribe ancora in corso come quella tra Pornhub e gli Uffizi: «Però il museo è felicissimo di fare video su TikTok culturalmente pornografici». E dopo una stoccata al collega Vittorio Sgarbi («È molto chiaro che cosa gli sta a cuore e direi che non è la cultura») non poteva mancare la politica: «I Ferragnez hanno preso posizioni che avrebbe dovuto prendere la sinistra. Vuol dire che possono sostituire la sinistra? No. Che sono di sinistra? No. Ma che c’è un problema nella sinistra». In questo caso, inutile provare a nominargli Matteo Renzi: «Non lo è mai stato di sinistra. Ora, in assenza di consenso popolare è la mosca cocchiera di volta in volta dei grandi interessi». Mentre a destra vede nella crescita di Giorgia Meloni un “pericolo per la democrazia”: «Non si è mai espressa in modo serio contro il fascismo e nonostante il forte sostegno popolare credo sia impossibile per il presidente della Repubblica darle l’incarico di formare il governo», sull’ipotesi di Silvio Berlusconi al Quirinale cita Corrado Guzzanti: «Mi viene in mente lo sketch sulla Casa delle libertà: “Facciamo un po’ quel cazzo che ci pare”». E in attesa del suo prossimo libro, che si intitolerà “Chiese chiuse” (Einaudi) su come valorizzare il patrimonio ecclesiale, ha risposto anche chi lo critica attraverso la stampa, da ultimo Luigi Mascheroni: «L’ennesimo articolo fogna come su Dagospia, Il Giornale, Il Foglio e Il Secolo d’Italia».
Professore, dopo un anno di stop quasi totale, anche nel mondo della cultura si parla di ripartenza. È effettivamente così?
Speriamo di essere arrivati a un punto di svolta, ma sono un po’ pessimista. Sono stato molto criticato come se fossi una Cassandra allarmista, ma l’ho detto ad aprile a Otto e mezzo che rischiamo una impennata e di chiudere a fine agosto. Non credo ci si possa definire fuori del tutto, vedo una grande sottovalutazione per il secondo anno consecutivo. È una metafora del nostro mondo: se non vediamo la macchina che ci sta venendo addosso non ci preoccupiamo. È un segno drammatico della nostra incapacità di costruire qualcosa che non sia per i prossimi cinque minuti.
Cosa l’ha più colpita dell’anno trascorso con musei, teatri, cinema e luoghi di cultura chiusi?
Il dolore per tutti coloro che di cultura vivono e che sono stati colpiti durissimamente da questa pandemia. Un fenomeno che, però, ha rivelato le cose come stanno al di là della retorica: che della cultura non ce ne frega niente. Tenere aperte le chiese per la messa, ma non le aule di università o i teatri è stato un controsenso. Sono esattamente la stessa cosa, tenendo conto di accorgimenti e numeri contenuti. E così, abbiamo capito che in fondo non siamo sinceri quando diciamo che la cultura e la scuola devono essere al primo posto.
E personalmente, come ha passato i periodi più duri della pandemia?
Personalmente bene. Ho il privilegio di vivere al centro di Firenze e la cultura non è solo quella a pagamento degli eventi. C’è anche quella del patrimonio diffuso. Le chiese e i cortili erano aperti, ho goduto della città in tutta la sua bellezza come non mi capitava da tanto tempo. Ci ha fatto riflettere, abbiamo recuperato una dimensione di umanità. Per la prima volta nella mia vita ho sentito il rumore dell’acqua della fontanella di Ponte Vecchio, che prima era coperto a causa dell’oceano di turisti. Questo dovrebbe indurci a cambiare modello economico.
Una delle sue battaglie è contro le “mostre blockbuster”. È cambiato qualcosa durante questa ripartenza?
Forse se ne fanno un po’ meno, ma per ragioni economiche. Però se ripartenza ci sarà credo la prevedo come prima e più di prima. Non sappiamo costruire modelli alternativi. Il delirio delle grandi mostre è ancora lì. Non solo sono inutili, sono anche dannose. Provocano la dispersione del patrimonio dal punto di vista della conservazione e una dispersione delle forze a disposizione. Gli italiani vanno a vedere le mostre ma non conoscono davvero il loro patrimonio e il paradosso è che potrebbe renderci liberi, invece ci costringe in quel caso a essere dei consumatori. Le mostre possono essere un buon prodotto o un cattivo prodotto, mentre il patrimonio culturale quando è libero è un’altra cosa. Ma di questo non c’è consapevolezza.
Cosa ne pensa di ITsArt, la piattaforma streaming lanciata dal ministro Dario Franceschini e considerata “la Netflix della cultura”?
Già questa definizione, utilizzata dal ministro Franceschini, è patetica. Perché Netflix è una portaerei e ITsArt una triste scialuppa. È come dire che il Colosseo è il perfetto set del Gladiatore. Credo che sia un buco nell’acqua, un fallimento abbastanza vergognoso. In uno stato normale dopo una cosa del genere un ministro si dimette. C’è Rai Play con l’archivio della tv pubblica, per cui uno che propone una piattaforma del genere vuol dire che non sa in quale paese vive.
Sembra che il ministro Franceschini abbia la passione per le piattaforme. Ricordo il sito “Verybello” che però anche in quel caso durò poco…
C’è un problema culturale. Ora dirò una cosa impopolare e antipatica, però mi chiedo: si può governare la cultura senza essere colti? È come dirigere un grande ristorante senza sapere nulla di cucina. O un grande ospedale senza sapere nulla di sanità. Mi chiedo: qual è la vita culturale interiore di coloro a cui è affidata la cultura? Sembra che non ce ne sia alcuna. Non è un giudizio personale, ma una constatazione a valle dei risultati.
Ci sono persone di cultura che si impegnano in politica, come il suo collega Vittorio Sgarbi.
La ragione per cui io provo ad avere una voce nel discorso pubblico è perché penso di essere stato molto fortunato e privilegiato e quindi sento di voler restituire qualcosa. Non so se ci riesco, magari lo faccio malissimo. Ma il discrimine è tra l’idea di servire alla cultura o di servirsene per promozione personale. Credo che Sgarbi abbia fatto certe scelte. È molto chiaro che cosa gli sta a cuore e direi che non è più la cultura. Per dialogare bisogna avere un terreno comune e in questo momento non lo vedo.
In un dibattito pubblico a Otto e mezzo tre anni fa, lei segnalò come l’Italia spendesse per la cultura solo lo 0,7 del Pil. Il ministro era Franceschini. E lo paragonò al suo criticatissimo predecessore Bondi che invece lasciò allo 0,8. Ora come siamo messi?
C’è stato un leggero aumento, Franceschini è riuscito a portare qualche soldo in più ma sono stati rivolti a grandi progetti e a iniziative spot. Mentre invece bisognerebbe consolidare un bilancio che avrebbe l’unica vera drammatica priorità di assumere personale. A Siena non c’è uno storico dell’arte. A Pisa ce n’è uno solo. La situazione è drammatica in tante altre parti d’Italia. Non c’è personale, chiudono gli archivi, le biblioteche, vanno in pensione i vecchi funzionari senza avere la possibilità di tramandare il loro sapere ai più giovani e quindi con una preoccupante interruzione della catena. Parallelamente, i nostri laureati migliori portano a casa la cena come rider. Un mestiere molto degno, ma forse non hanno studiato per quello.
Quindi manca un vero progetto sull’occupazione?
Sì, questo è il grande problema nella cultura, la disoccupazione di massa e il fatto che il patrimonio muoia per mancanza di lavoratori. Il super ministro Franceschini non è riuscito a risolverlo, tutto il resto è propaganda.
Attualmente al Pirelli HangarBicocca di Milano è in corso l’esposizione di Maurizio Cattelan, mentre la scorsa settimana si è tenuto un incontro pubblico con Marina Abramović al Maxxi di Roma. Ma l’arte contemporanea riesce ad avere una influenza sulle nostre vite?
Intanto, c’è una bella differenza di spessore tra i due. Marina Abramovic ha un impatto e una profondità culturale. È una artista molto interessante. Comunque, le forme d’arte che incidono di più sulla massa non sono quelle. Se domani chiudono i musei di arte contemporanea se ne accorge solo chi ci lavora. È un tema oggettivo sul quale bisogna riflettere. Le forme più alte di cultura oggi sono le serie tv davvero ben riuscite. Quando queste arrivano a grandi numeri, sono scritte e concepite con la profondità di un romanzo e girate con la sapienza di un grande film sono forme d’arte con incidenza incomparabilmente superiore a qualsiasi museo di arte contemporanea.
Che ne pensa del progetto ‘Classic Nudes’ di Pornhub? Gli Uffizi hanno diffidato il sito hard.
Gli Uffizi dovrebbero decidersi. Al momento sono felicissimi di fare video su TikTok che sono culturalmente pornografici e aberranti, così come di cavalcare la presenza di Chiara Ferragni in maniera propagandistica e controproducente, a mio avviso. Lei ha fatto benissimo il suo lavoro, ma credo che il problema sia il direttore degli Uffizi. Poi si lamentano contro l’uso delle opere d’arte per la pubblicità dell’impresa municipalizzata che raccoglie i rifiuti a Firenze e del sito porno. Ma se fai pornografia intellettuale sei poco credibile quando difendi le opere d’arte dalla pornografia generale. Ci sarà sempre qualcuno che dirà “la Ferragni sì e il porno no”, ma alla fine chi lo decide?
Appunto, come si decide?
Bisogna evitare che le opere d’arte diventino un prodotto commerciale e di trattare i cittadini come consumatori, c’è una differenza non moralistica ma di funzione. Consumatori o cittadini? Se si decide che sono consumatori, stabilire che possono consumare certe cose e non altre disegna uno Stato etico su cui si possono avere dei legittimi dubbi.
Per caso sarebbe d’accordo con la proposta del direttore del quotidiano Domani, Stefano Feltri, di un Concordato Stato-Ferragnez per limitarne l’influenza attraverso i loro social?
Ho stima di Stefano Feltri, è un amico e fa un ottimo giornale, però è curioso che questo problema venga posto dal direttore di un quotidiano il cui editore è Carlo De Benedetti. C’è un problema reale di possibilità di accedere al discorso pubblico? Sì, però non riguarda solo Fedez e la Ferragni, riguarda tutti. Bisogna riconoscere, con qualche imbarazzo, che i Ferragnez hanno preso posizioni che avrebbe dovuto prendere la sinistra. Vuol dire che possono sostituire la sinistra? No. Che sono di sinistra? No. Ma che c’è un problema nella sinistra, che dovrebbe puntare sul pensiero critico, sulla riflessione anti-sistema. Poi, l’accesso asimmetrico all’informazione è verissimo che esiste, ma pensiamo alle testate giornalistiche degli Elkann. Allora il problema sarebbero i Ferragnez? Siamo in una democrazia limitata proprio per lo stato in cui versa la nostra informazione.
Tornando al ruolo della sinistra, nella Siena in cui lei è diventato rettore dell’Università per gli stranieri, si è candidato alle suppletive per la Camera il segretario Pd Enrico Letta. Un bel rischio, visto che si attendono gli sgambetti di Renzi e Calenda.
Da futuro rettore non voglio prendere posizione elettorale. Ma posso dire che è una occasione per la città di veder discussi i suoi problemi che sono tanti su una ribalta nazionale. Letta è una persona seria, non ne condivido tante idee, altre sì. Io comunque sono molto interessato ad ascoltarlo. È una scelta coraggiosa politicamente, sarà un termometro molto interessante. Spero però che sia l’occasione per la città di essere rappresentata.
Chi invece non ha mai risparmiato dalle sue critiche è Matteo Renzi.
Bisogna chiarire che non è mai stato di sinistra. Gli si possono dare tante colpe, ma non ha mai detto esserlo, nonostante una parte del Pd si sia voluta raccontare che lo fosse. E non lo ha mai detto anche perché sarebbe stato assai poco credibile.
Eppure, sembra contare più oggi che guida un partito con un consenso risicato che prima quando era segretario del Pd.
Quando si giudica l’altezza di una collina bisogna verificare l’orografia. Siamo in un momento di totale assenza della politica. C’è un governo di unità nazionale che tiene insieme Bersani e Salvini. Il partito degli assessori che sparano ai migranti e la sinistra che viene dal Pci. All’opposizione c’è una destra molto legata al passato fascista che in realtà è d’accordo con il governo sull’80 per cento dei provvedimenti. In questa calma piatta, anche un nano politico come Renzi sembra rilevante. Lui sta giocando abilmente e cinicamente le sue carte mettendosi al servizio di forti interessi. Alla totale assenza di consenso popolare supplisce prestandosi a fare la mosca cocchiera dell’oligarchia finanziaria di Draghi o del Vaticano sul Ddl Zan. È una specie di capitano di ventura del nostro Rinascimento, che gli piace tanto in salsa saudita. Ma penso passerà presto dalla politica agli affari.
E quando sente parlare di Silvio Berlusconi al Quirinale, cosa pensa?
Mi viene in mente il meraviglioso sketch di Corrado Guzzanti sulla Casa delle libertà, quando dice: “Facciamo un po’ quel cazzo che ci pare”. Mi immagino il Quirinale trasformato in una roba del genere. Credo sia improbabile per lo stato di salute del Cavaliere, che mi spiace umanamente. Se dovesse avvenire, credo sarebbe la confessione di quello che siamo, un’autobiografia grottesca della nazione, come nel film La grande bellezza.
Intanto Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia vola nei sondaggi.
La Meloni ha militato in un partito fondato a diretto da Giorgio Almirante che credeva nella “difesa della razza”. Sono sconcertato che nessuno avverta come un pericolo l’arrivo della Meloni al governo. Non credo nella sua fede democratica. Non ha mai preso posizioni serie contro il fascismo, come quando il presidente della regione Marche, sindaco di Ascoli del suo partito, ha partecipato a una cena per celebrare la marcia su Roma. Penso che, nonostante un forte sostegno popolare, sia impossibile dare alla Meloni l’incarico di formare il governo. Il Presidente della Repubblica non dovrebbe farlo, perché la Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo che però la esercita nelle forme e nei limiti e con una disposizione finale sull’impossibilità di riformare il partito fascista. E Fratelli d’Italia è percorso da forti presenze fasciste. Credo sia un pericolo per la democrazia.
Qualche tempo fa il giornalista Andrea Scanzi ha detto che la destra non ha un intellettuale da 300 anni. È d’accordo?
No, perché una cultura di destra può esistere, ovviamente. Ma la vera cultura, comunque, è critica e quindi difficile legarla a una parte. Il pensiero organico è sempre sospetto, si scade nella propaganda. E bisognerebbe intendersi su quale destra. Quella liberale, liberista, fascista, autoritaria. Per ciascuna di queste destre si possono trovare intellettuali. Come ci sono tante sinistre.
Qual è il suo rapporto con chi la critica? Da ultimo prendo a esempio un lungo articolo al vetriolo che le ha dedicato Luigi Mascheroni su Il Giornale.
Mi sono abituato. Però mi stupisce che non ci siano mai discussioni, anche feroci, sulle idee. Scrivono questi ritratti sempre uguali come su Dagospia, Il Giornale, Il Foglio, Il Secolo d’Italia. Pubblicano ciclicamente pezzi identici. Quello di Mascheroni è l’ennesimo articolo fogna e fotocopia, che contiene virgolettati veri e falsi mescolati, travisamenti continui di posizione. Vengo ritratto come comunista, solo che sono un cattolico radicale e non sono mai stato marxista, il che non vuol dire che non rispetti quella cultura. Sono secchiate di fango, non hanno a che fare con il giornalismo, è solo noioso che siano sempre uguali. Però leggendoli mi rassicurano, perché se avessi fatto qualcosa di male lo riporterebbero, mentre invece non c’è mai un vero entrare negli argomenti. È solo il tentativo di denigrarmi, il segno del pessimo livello culturale italiano dove non si riesce mai ad aprire un discorso critico sostanziale.
Ha qualche novità letteraria in vista?
A metà settembre sarà pubblicato il mio nuovo libro “Chiese chiuse” (Einaudi), sul patrimonio ecclesiale culturale. Un ragionamento da cristiano e da cittadino su cosa fare delle decine di migliaia di chiese monumentali chiuse che o cadono a pezzi o si trasformano in attrazioni a pagamento. C’è una terza via e cerco di delinearla.
Con questo libro sarà più difficile etichettarla come comunista...
La stupidità di certi giornalisti italiani è tale per cui tutto è possibile.