La vendetta è un piatto che va servito in classifica. Questo si deve essere detta Shakira, e questo, le va riconosciuto, ha cucinato a dovere, andando a costruire un ritorno sulle scene mai così atteso e soprattutto mai così fortunato. Perché se c’è stato un periodo, ma parliamo di oltre venti anni fa, nel quale Shakira era la dominatrice delle classifiche, a partire dalla sua tablodization, ai tempi di Whatever Whenever andando via via a mega hit planetarie quali La tortura, Waka Waka, colonna sonora dei mondiali del Sudafrica e Hips Don’t Lie, in compagnia di Wyclef Jean dei Fugees, She Wolf, Beautiful Liar con Beyoncé, di quattordici anni fa, Can’t Remember to Forget You con Rihanna di dieci anni fa e Chantaje con Maluma di sette anni a fa a fare ancora numeri pazzeschi. Ed è anche vero che negli ultimi anni di lei si erano praticamente perse le tracce non solo dalle classifiche, succede, quanto piuttosto dall’immaginario, divenuta più che altro la moglie di Piqué, calciatore campione con la maglia del Barcellona e della Spagna. Una sorte malevola per una cantautrice che aveva fatto proprio del suo woman empowerment in salsa caliente la sua cifra più riconoscibile, quel suo dimenare i fianchi al ritmo di danza del ventre che accompagnava sinuoso ogni sua esibizione, da Barranquilla, Colombia, in vetta al mondo. Poi ecco che l’amore, così spesso cantato anche con tutto il piccante che l’amore applicato alla corporeità comporta, ha sostituito la carriera, quindi ecco i figli, le foto senza un minimo di cura, tanti saluti al resto. Poi, è cosa notissima, la Ferrari Shakira viene sostituita nel parco macchine di Piqué da una Twingo, la Clara Chia Martì che Clara-mente nel testo del brano “Bzrp Music Sessions Vol.53”, uscito in compagnia di Bizarrap, o volendo un Rolex con un Casio (la faccenda dei Rolex, evidentemente, è centrale nei casi di divorzio tra ex calciatori e le proprie mogli, il caso Francesco Totti contro Ilary Blasi lo dimostra assai bene), di qui una prima revenge song uscita ormai oltre quattordici mesi fa, all’inizio del 2023, e che ora trova spazio nella tracklist del nuovo attesissimo album della cantautrice colombiana, dal sintomatico titolo Las Mujeres Ya No Lloran, le donne non piangono, appunto. Canzone premiata da un grande successo, coi suoi quattordici milioni di stream nel primo giorno e la vetta global conquistata nel giro di poche ore, è il brano in lingua spagnola ad aver ottenuto il miglior risultato di sempre, record assoluto ancora valido a distanza di così tanto tempo, complici le oltre novecento milioni di volte in cui qualcuno l’ha ascoltata solo su Spotify.
E veniamo a oggi. Esce il nuovo lavoro di studio di Shakira, quello nel cui titolo si fa riferimento al fatto che le donne non piangano, sottolineato dalla foto della nostra che, in copertina, invece di sfoggiare lacrime sfoggia diamanti, si suppone metaforici e non, visto che un divorzio comporta anche sborsare denari. Classe 1977, un po’ più dei quarantaquattro dichiarati nel suo sfolgorante ritorno (quando diceva di valere quanto due di ventidue anni), ma portati magnificamente, va detto, Las Mujeres Ya No Lloran è il suo dodicesimo album, in una discografia che ha alternato sapientemente spagnolo e inglese, così da non scontentare né il pubblico latino-americano, né quello più radicalmente anglosassone. Un album, lo diciamo subito, che ci dona una Shakira in ottimo spolvero, assolutamente ispirata e pronta a mordere, come forse non accadeva dai tempi di Oral Fixation, e sono passati quasi venti anni. Un album che alterna un focus musicale spinto sul fronte electropop, come quando ha ancora Bizzarrap al suo fianco nella futura hit La fuerte. Che sia una futura hit lo si intuisce al primo ascolto, provare per credere, quando chiama al suo fianco Rauw Alejandro, gli anni Ottanta a farla da padrona in Cohete, cassa dritta e basso potente, voci lievi come flauti di pan che poi si fanno più forti e infine vengono filtrate, quasi robotiche (Rauw era già presente nel singolo Te Felicito, uscito un anno fa, uno dei primi tasselli di questo mosaico che Shakira ha costruito con una sapienza che le va riconosciuta, nel tempo, un brano che mescolava dance e ritmi latini, alternando mondi solo in apparenza distanti, sempre accompagnati da un ritmo assai sintomatico di quello che è il nuovo corso della carriera della cantautrice, women empowerment a gogo), o nel singolo Punteria, di cui parlerò più avanti, a un mondo musicale più squisitamente cantautorale, per come intende il cantautorato l’artista colombiana. Quindi chitarrone acustiche in primo piano, come in Como Donde y Cuando, per dire, voce stentore in evidenza, empatica e così fortemente caratterizzata, batteria quasi militare a reggere un ritmo marziale nel ritornello, o quando in apparenza parte come una canzone giocata su una chitarra acustica, come in Tiempo Sin Verte, altro titolo sintomatico dello spirito con cui la nostra ci ha messo su le mani, mica è un caso che abbia parlato della propria “ricostruzione” dopo le note vicende personali, e di “rinascita”, con la canzone che prende poi un ritmo più spinto, lasciando in evidenza le chitarre, ma colorandole di effetti. Brani quali Nassau, ballad con un accenno di cassa dritta che poi si sposta su ritmi latini, la voce che gioca sul falsetto come su quella cifra così caratteristica che nel tempo ci è diventato familiare, una delle migliori tracce della covata, lo spagnolo, diciamolo apertamente, scelta assolutamente azzeccata per un lavoro che mostra sia l’orgoglio che l’anima ferita. Unica altra traccia pianistica oltre la già citata Acrostico è Ultima, altra ballad che, fossimo nel Novecento, farebbero scattare balli guancia a guancia nei locali, e gli accendini nei live, la batteria grande assente giustificata.
Del resto Shakira aveva cominciato l’avvicinamento a Las Mujeres Ya No Lloran già un anno fa, e le briciole di pane che aveva lasciato lungo il cammino, dall’iniziale Bzrp Music Sessions Vol 53, tecnicamente di Bizarrap ma ovviamente presente qui, passando per Tqg, reggaeton elegante, so che può sembrare un ossimoro, ma tant’è, dove ad affiancarla era l’altro gigante Karol G, anche in questo caso tecnicamente brano della collega poi finito dentro questo suo lavoro, Monotonia, con Ozuna, con quella partenza dolente che poi diventa quasi ritmo caraibico, un video autoironico che gioca la carta della disperazione trasformata in voglia di ripartire, quel buco fatto in petto da un bazooka che gli fa letteralmente cascare il cuore a terra, Copa Vacia, con Manuel Turizo Zapata. Dio santo, Shakira ha preso alla lettera le indicazioni di Daniel Ek, mi rendo conto ora, scrivendone, costellando l’ultimo anno di singoli, e che singoli, dove una ballad lascia subito posto a un brano sincopato, dai ritmi latini, lei sirena finita in terra ferma salvata, sì, ma poi finita dentro un acquario ad accompagnare il tutto, o la più recente El Jefe, con Fuerza Regida, facevano già capire molto se non tutto di quello che saremmo andati a sentire, dai differenti stili presenti, ma questa è in fondo sempre stata Shakira, metteteli voi insieme dance e ritmi latini da giga, El Jefe in fondo sarebbe ascrivibile quasi a questa nuova ondata country che settimana prossima avrà nel nuovo album di Beyoncé la sua punta di diamante, il video in cui cappello da cowboy balla sculettando, alternando quel ballo ad altre in sella a un cavallo, molto ironiche, di rosso vestita, fino a quelle dove indossa i panni di chi si ribella al patriarcato, impersonato da un vecchio trombone, assolutamente da guardare e riguardare. Per la cronaca anche [Entre parentesis], ci ho messo più a trovare queste parentesi quadre che a scrivere il pezzo, Dio santo, è da quelle parti, parlo di musica da fienile, con lei i Grupo Frontera. Discorso a parte merita invece Punteria, singolo di lancio dell’album, buon ultimo dopo tutti quelli pubblicati negli ultimi quattordici mesi, traccia nel quale al fianco di Shakira arriva nientemeno che Cardi B, eroina del rap al femminile, nota per il suo flow travolgente tanto quanto per una estetica e un mood vagamente “aggressivo”, sto parlando di sensualità ma forse anche di sessualità. Insieme a Nicki Minaj e Megan Thee Stallion punta di diamante di quel rap sessualizzato ed erotizzato che ha letteralmente gettato le fondamenta per l’emancipazione delle afroamericane, il pop di Beyoncé a tirare le fila. Cardi B, ex spogliarellista considerata, a ragione, una delle Queen del rap americano, rime taglienti e piccanti, corpo formoso e tatuato, che proprio nell’estate scorsa è passata agli onori delle cronache per aver letteralmente tirato il microfono in testa a uno spettatore che, durante un live, le aveva lanciato addosso un cocktail. Come dire, una che chiamerei al mio fianco se dovessi andare a fare una rissa in un bar, povero Piqué. Il video promozionale che aveva anticipato, rendendo la musica praticamente incomprensibile, quello ufficiale era un tale concentrato di product placement, dalle patatine Sabritas alla Pepsi Cola, sparata praticamente ogni due immagini, da dare assuefazione, lasciando storditi, quello ufficiale, su tinte lilla, ambientato in una sorta di Olimpo frequentato da aitanti e muscolosi centauri, Shakira e Cardi B, circondate da ancelle, a scegliere quali trasformare in umani e basta colpendoli con frecce scoccate con l’arco (la scelta cade su Lucien Laviscount, attore divenuto famoso con Emily in Paris, il frame in cui, steso in terra, ferito, tra le braccia di Shakira, materna, ricrea la Pietà di Michelangelo è forse un po’ troppo, lo confesso).
Una bomba di canzone che entrerà nel novero delle megahit di Shakira, e che dimostra come da una triste storia personale si possa tirare fuori un album che è capace di lasciare un segno nel pop, complice anche quel velo di trash, tra ammiccamenti ed eccessi cromatici che non guasta mai. Se da una parte, ascoltato Las Mujeres Ya No Lloran ci verrebbe voglia di andare a disegnare cazzi con un chiodo arrugginito sulla macchina di Piqué, che ovviamente non è una Twingo, dall’altra mai come oggi sarebbe da erigergli un monumento, per aver concesso a Shakira di poter tornare in maniera così dirompente dopo anni nei quali non era mai stata così a fuoco, ma questo è ovviamente un discorso sessista che verrà imputato a un mio spirito patriarcale neanche troppo latente (l’ironia, quella che Shakira regala a piene mani, spesso ha bisogno di didascalie, eccola a vostra disposizione). E già che ci siamo, dovendo trovare un finale degno di questo lavoro, ripeto, notevole, e avendo constato come, preso dal raccontare un lavoro pop che finalmente appaga il mio bisogno di lavori pop di qualità, mi sono praticamente tenuto fuori dalla narrazione, contravvenendo a una sorta di regola di ingaggio che ho stretto con voi, oh lettori, eccomi irrompere intempestivamente in scena, tanto per non lasciarvi con l’amaro in bocca. In fondo quanti di voi possono vantare aneddoti con la presenza fisica di Shakira? A voi. Anni fa, era il 2001, ero un giovane critico musicale al soldo del magazine Tutto Musica, cartaceo che vendeva qualcosa come Settecentocinquantamila copie a numero. Per questo ci capitava che ci proponessero interviste con popstar internazionali che dovevano promuovere le proprie opere. Mi viene proposto di intervistare questa giovane artista colombiana che sta per pubblicare il suo primo album in inglese, per proporlo al mercato internazionale, lei che ha già un forte seguito in quello sudamericano. Per rendere il tutto più appetitoso, come non bastassero già Whatever Whenever, che di lì a breve diventerà una megahit mondiale e le altre canzon di Laundry Service, il suo ufficio stampa mi dice che è amica di Gabriel Garcia Marquez, allegando foto che ritraeva i due abbracciati, entrambi colombiani. Decido di incontrarla, in una ristrettissima roundtable presso un noto albergo di Milano. Siccome sono un cazzone, mi presento vestito completamente di pelle nera, allora pesavo quella venticinquina di chili in meno di ora, con tanto di valigia nera appresso (in realtà poi sarei dovuto partire non ricordo per dove), le immagini del Desperado di Robert Rodriguez, con Antonio Banderas, a spingermi a giocare con un certo immaginario latino non esattamente incluso nel novero della legalità. Arrivo nel luogo del delitto, e mi rendo conto che con me ci sono solo quattro o cinque, non ricordo bene, colleghe di femminili, evidentemente più attratte dal fatto che Shakira, giovane e assai bella, abbia deciso di farsi bionda per lanciare il tutto, qui sto giocando beceramente la carta dell’intellettuale che guarda dall’alto in basso chi si occupa di riviste femminili, tanto per continuare a essere coerente col look da Antonio Banderas in salsa Mariachi, sia chiaro, che dalla foto con Gabriel Garcia Marquez. Iniziamo questa chiacchierata e, clamorosamente, Shakira mi usa come sponda per condurre a piacimento l’intervista, facendo di me quel che vuole, e usandomi per portare di volta in volta il discorso esattamente dove vuole lei, anche con le colleghe delle riviste femminili, non ferratissime in fatto di musica. Dico solo che arriverà a chiedermi, ovviamente pubblicamente, se sono disponibile a tenerle ripetizioni di italiano, come fosse una Jamie Lee Curtis invaghita dal mio accento italiano. A quel punto, confesso, avrebbe anche potuto tirare fuori un disco di rutti e ne avrei parlato bene, e mi sarei messo a fare del mio allora non così pingue corpo come scudo per chiunque l’avesse criticata, non che ne abbia dato grande occasione negli anni.
Qualche settimana dopo quei fatti, un’altra major, vatti a ricordare chi, mi propone di intervistare un’altra popstar latina, la messicana Paulina Rubio, che sta provando esattamente a fare la medesima cosa, conquistare il mercato internazionale a suon di hit e di ancheggiamenti. Paulina è un po’ più grande di Shakira, 1971, e la cosa non le riuscirà alla medesima maniera, forte di singoli di minor impatto più che di minor sex appeal. Nel suo caso l’intervista è one to one, sempre in uno dei mega alberghi che in genere ospitano le star internazionali, alla presenza di discografici e uffici stampa. Mi presento in borghese, perché di passare per Pablo Escobar con tutte le artiste latino-americane mi sono già scocciato. Iniziamo a chiacchierare, il suo album si intitola Paulina, denotando non troppa originalità, e porto a casa un’intervista di mestiere, senza particolari picchi creativi, quando sul finire Paulina, ammiccante, mi fa i complimenti per il mio inglese, dall’accento fortemente local, chiedendomi se non mi andasse di farle da insegnante privato di italiano. Ecco, diciamo che in quel preciso momento ho capito perché un colpo d’anca ben assestato e una frase sussurrata in spagnolo avrebbe a lungo fatto girare la testa a molti di noi, perché è vero che “le donne non piangono, le donne fanno soldi”, come canta Shakira, ma è anche vero che noi uomini, tendenzialmente, non capiamo proprio un cazzo, e ancora non abbiamo capito che i fianchi delle donne non mentono, come Shakira cantava in Hips don’t lie, ma a parole le donne ci rigirano come calzini, eccome, poveri coglioni che non siamo altro, e quando sono gli uomini a mentire, maledetto e benedetto Piqué, poi tirano fuori album pop perfetti come Las Mujeres Ya No Lloran.