Tardo Novecento. C’era il grunge, dolente ma di successo. Echi che anche in Italia generarono reazioni artistiche importanti. Tanto che venerdì 27 giugno torna (doppio vinile, cd, digital) il primo omonimo album dei Karma, band milanese che esordì nel 1994, l’anno in cui – era il 5 aprile – morì Kurt Cobain. Ne parliamo con il leader, David Moretti, cantante poi diventato creative director di Apple in California. La band è completata da “Il Conte” Andrea Bacchini alla chitarra, Andrea Viti al basso, il futuro Afterhours, Diego Besozzi alla batteria e Alessandro "Pacho" Rossi, uno dei migliori percussionisti nostrani. Rock italiano, vedete? Ben prima dei Måneskin, ma anche prima di tante band che hanno poi finito per codificare il sound italiano degli ultimi 20-25 anni.
Da cosa nasce la volontà di riproporre dopo trent’anni il vostro primo disco?
Nel 2023 era uscito il nostro terzo album, “K3”. Durante il tour abbiamo notato grande entusiasmo, facce nuove. Lo abbiamo chiuso lo scorso 29 marzo, con un clamoroso sold-out “scaldacuore” al Santeria di Milano e, visto il successo dei concerti, insieme a Sony abbiamo scelto di storicizzare il nostro esordio e calarlo nella contemporaneità di un gruppo ancora vivo e scalpitante.
Il vostro esordio germogliava in un’epoca in cui il rock, benché genere già ampiamente maturo, proponeva nuove evoluzioni (grunge, shoegaze, le tante sfumature del mondo alternative). Ora il rock “per le masse” sembra qualcosa di molto standardizzato…
Serve un necessario distinguo. Io abito ormai da dieci anni negli Stati Uniti e lì la storia è un po’ diversa, il rock americano ha continuato a contaminarsi. Diciamo invece che il rock italiano, grosso modo dal 1997 in avanti, è andato a definirsi in modo abbastanza preciso. Testi profondi, canoni sonori che vanno dal post-punk fino al cantautorato rivisitato. Spesso i capisaldi della scena alternativa italiana sono stati paragonati ai grandi cantautori della nostra canzone. Noi nasciamo un po’ prima e smettiamo appena esplodono Mtv e Internet. Veniamo dalla tradizione italiana, ma il nostro sguardo è proiettato ai suoni anglo-americani. Quando eravamo in giro noi il rock italiano non era stato codificato. Potevamo fare i festival con gli Almamegretta o con gli Afterhours, senza grandi problemi di genere o stile. Era il suono, vario e abbondante, della controcultura italiana, un manifesto per la nuova generazione. Poi il rock italiano è diventato altro e noi abbiamo sospeso il dialogo col pubblico. Un dialogo che recuperiamo, oggi, in un’epoca in cui i Deftones hanno appena fatto 15mila persone a Milano senza la minima pubblicità. C’è un mondo reale, in Italia, che ha voglia di rock ma in questo paese ha faticato a trovare nuove voci in cui credere.

Un album, il vostro, che profumava di grunge.
Perché il disco era già pronto 1992. Autogestito, prodotto da Fabrizio Rioda dei Ritmo Tribale in questo luogo leggendario che era il Jungle Sound di Milano. Avevamo la volontà di appartenere a qualcosa di vivo e contemporaneo.
È uscita da qualche giorno, per rimanere sul tema Jungle Sound, la prima puntata del vodcast (“Milano sogna”) a esso dedicato. Com’è stato farne parte?
La persona che ha rilevato il Jungle Sound, Lele, ha chiamato Fabrizio per parlare, attraverso una serie di chiacchierate/episodi, di ciò che ha rappresentato questa factory unica e irripetibile. Perché al Jungle è passata la Milano alternativa, artisti stranieri, giornalisti, discografici. I Karma sono stati la prima produzione targata Jungle Sound al di fuori dei Ritmo Tribale.
Che aria si respirava in questo laboratorio?
C’era molta voglia di sperimentare. E un gruppo di musicisti che prima di essere musicisti erano soprattutto amici con uno studio a disposizione. Se guardi i crediti di questa ristampa vedrai che in “Nascondimi” c’è Manuel Agnelli che fa da contro canto, Andrea Scaglia dei Ritmo Tribale è ospite in “Una stella che cade” e poi nella traccia bonus de “Il cielo”, presente nell’edizione vinile, c’è Patrick Benifei dei Casino Royale al pianoforte. Le edizioni del disco erano Casino Royale. Era una famiglia. Una famiglia in cui ci si aiutava. Si faceva rete, sul serio.
Qualcosa che probabilmente si è perso nella Milano di oggi?
Qualcosa che forse è sopravvissuto nella scena rap perché nasce veramente dal basso, perché nasce ancora una volta dalle autoproduzioni. Nasce slegata dalle volontà delle grandi case discografiche, poi si impone e diventa “virale”.
Prendiamo in prestito le parole del vostro amico Manuel Agnelli, che ha detto: “Da vent’anni a questa parte la musica italiana è una mer*a, ma sembra che sembra che a tutti però stia bene. La discografia si è trasformata in una catena di montaggio, pochissime persone producono e scrivono i pezzi che si sentono in giro, c'è un controllo totale, l'algoritmo è nutrito da robe uguali, i ragazzi sono spremuti fino al midollo. Perfino la promozione è quasi assente perché i cantanti sono influencer e ci pensano da soli. A livello di qualità è una disgrazia – prosegue Agnelli. Al primo disco o fai San Siro o ti levi dalle scatole. E anche se fai lo stadio poi vai dallo psichiatra perché non duri più di tre o quattro anni”. Commenta.
Beh, Manuel ha messo insieme molte cose. In parte siamo d’accordo, in parte no. Il mainstream c’è sempre stato e così la logica del produrre, come si diceva una volta, a tavolino. C’è sempre stata la voglia sapiente di cucinare melodie che poi sono entrate nella memoria collettiva. Anche il fatto di affidarsi ad autori e compositori per supportare gli interpreti è pratica antica. Quando poi si parla di qualità è opportuno non ridurre tutto a “autotune sì”, “autotune no”. Sul discorso dell’algoritmo, invece, sono d’accordo. Però non sarei così trenchant nel pensare che tutto quello che c'è adesso è me*da. Come non penso che tutto il mainstream che c'era allora fosse me*da. Ci vuole sapienza e conoscenza anche per fare della buona trap. Negli States non c’è questa ansia di mettere sempre qualcosa contro qualcos’altro. Ê giusto che ci sia una musica generazionale che deve rispondere a determinate esigenze e linguaggi. Che poi le giovani generazioni scelgano tutto consapevolmente, questo è un altro paio di maniche. Diciamo che di certo, ai tempi, un G.G Allin non era spinto dalle case discografiche. Esisteva in virtù della sola voglia di esistere. Detto questo, sarebbe giusto essere un po’ meno severi perché l’Italia soffre molto di questo atteggiamento catastrofista. La monotonia della nostra cultura dell’entertainment non mi fa esultare, ma anche lì vedo che qualcosa sta collassando. C’è una parte sana che prospera e una parte marcia che si sta mostrando per ciò che è, vedi la logica dei live a San Siro a tutti i costi. Sono contento che Manuel stia investendo nella sua operazione Carne Fresca, un festival di giovani, che potrebbe costituire una buona alternativa.
