Come ogni festività che si rispetti c'è sempre qualcuno che lavora (in questo caso, io). Sì, anche andare ai festival e ai concerti è lavorare, o meglio fa parte delle tante cose che fa un giornalista che si occupa di musica. Con pazienza intorno alle 19 mi dirigo verso Sesto Marelli. Due metro, una ventina di minuti a piedi per raggiungere Kozel Carroponte, la venue dove si tiene Slam Dunk Italia, festival punk-rock nato nel Regno Unito che da due anni si svolge anche in Italia. Due palchi, dieci band in cartellone. Io, lo devo ammettere per amore della verità, conosco solo (e neanche troppo bene) gli A day to remember, che ascoltavo quando avevo 15 anni, indossavo i bracciali con le borchie e mi vestivo quasi solo di nero. Bei tempi, ma oggi che ho il doppio degli anni i miei gusti sono cambiati e a Slam Dunk, se non fosse per quello che sto per raccontare, non ci sarei mai arrivata di mia "spontanea volontà".
Questa storia nasce da un "dissing", di quelli che non si cagherebbe nessuno e non fanno notizia. I protagonisti? Io e gli Arcade Boyz. Giorni fa ho scritto un articolo in cui riprendevo un loro video sull'ultimo singolo di Fabri Fibra con Tredici Pietro. Li tagghiamo nelle storie, lo vedono e ci ringraziano. Potrebbe sembrare finita qui, ma mi iniziano a seguire su Instagram, ricambio, e ci scriviamo quasi in contemporanea nei dm. Io, nel mentre, mi rendo conto che hanno fatto un video in cui riprendono, criticandole, diverse parti del mio articolo sul disco di Guè e Rasty Kilo. Per farla breve: loro mi chiedono di riprendere anche quello, e io gli rispondo che sarebbe un auto-dissing, se così possiamo chiamarlo, perché l'articolo l'ho scritto io. Da lì chiacchiere e i messaggi che mi hanno portato allo Slam Dunk, dove mi hanno invitata proprio gli Arcade Boyz.

Vedete, c'è chi si dissa odiandosi con tutto il cuore e chi, invece, non lo fa intenzionalmente ma crea connessioni, più che distruggere rapporti. Così, dopo una ventina di minuti passati a schivare materassi buttati sotto gli alberi e altra robaccia lasciata da persone incuranti, arrivo a Carroponte. Dopo qualche difficoltà all'ingresso e due chiacchiere velocissime con Naska, incontrato per caso, Fada (Daniele Fadda, metà degli Arcade Boyz ndr.) mi viene a recuperare. Mi racconta del festival e di com'è nata la collaborazione (grazie al loro manager e a Monster). Abbiamo parlato, su Instagram, anche di un'intervista, che faremo presto, perché gli Arcade Boyz potranno non piacere, ma sicuramente sono tra quei creator che la musica la conoscono bene, spesso più di tanti giornalisti.
Sono arrivata tardi e riesco a vedere solo gli Zebrahead, i New Found Glory, i Caskets e ovviamente gli A day to remember. In più sono sola, almeno all'inizio, e questo mi offre un grande vantaggio: godermi non solo la musica, ma anche l'area del festival. Anche se è un delirio (per chi, come me, non ha la macchina) arrivare a Carroponte, la verità è che è una delle location all'aperto più belle che abbiamo a Milano, con quel "look" industriale che ricorda (vagamente) il parco Dora di Torino. Tra spazi dove rilassarsi e un sacco di postazioni per bere e mangiare, qualcuno ha guardato giù e ci ha finalmente liberato da uno dei grandi mali di tutti i festival: i token. Ovunque si paga serenamente con la carta e non si deve impazzire a fare i calcoli a mente per capire quanti soldi sono rimasti su un braccialetto. E poi, c'è sempre pochissima fila ai bagni

Anche qui, uno potrebbe dire "chissene frega", ma è proprio aspettando il mio turno che mi imbatto in Marcello e Mattia, due ragazzi bolognesi che mi "adotteranno" per il resto della serata. Ci ritroviamo in coda per prendere una birra e la conversazione inizia nel migliore dei modi: "ma come fate voi donne a fare pipì nei cessi chimici? Mi sento male per voi". E tra una battuta e l'altra ci presentiamo e così passiamo la serata insieme, tra pioggia e il concerto degli A day to remember che mi riportano alla mia adolescenza.
Tornando a casa inizialmente mi perdo. Fortunatamente ritrovo la strada mentre sto ascoltando Since u been gone di Kelly Clarkson, che mi è tornata in mente ascoltando la versione proprio degli A day to remember durante il concerto. Sono stanca, finita, ma la casualità che mi ha portato a Slam Dunk mi ha mostrato un festival riuscito, ben organizzato, con un pubblico di persone che pogano, urlano, si divertono sul serio. Molto meno fighetto dei festival a cui vado solitamente, ma anche autentico, dove c'è poca intenzione di apparire, ma molta di godersi il momento e la musica, che alla fine è il motivo per cui tutti, me compresa che sto lavorando, siamo lì.

