«Tutti hanno capito che, come nel resto del mondo, sei finalmente il primo anche nella nostra Italia e… scusa il ritardo». Lo ha scritto Al Bano dopo la morte di Toto Cutugno. Fu proprio Al Bano a salvarlo, o meglio a convincerlo a farsi curare. Toto lo aveva chiamato, sapeva che Al Bano aveva avuto problemi simili al suo. Si confidò per telefono al telefono, ma Toto, malinconico come sempre, non aveva intenzione di combattere, non voleva nemmeno curarsi quel cancro alla prostata, voleva lasciarsi andare. Me lo raccontò proprio Al Bano durante un viaggio in aereo insieme. Quel giorno Al Bano, generoso come sempre, partì subito per Milano e portò Toto dal medico che lo aveva operato, il professor Rigatti.
Anni dopo, quella storia, implicitamente Al Bano la ha raccontato ad altri pazienti proprio su un sito medico: «Penso che raccontare la propria esperienza sia il gesto più scontato del mondo. Nella mia vita ho vissuto giorni incredibili, irripetibili. E giorni di vera tristezza: quando devi affrontare un divorzio, quando perdi una figlia, quando soffri di un tumore alla prostata. E poi l’infarto, l’ischemia, l’edema alle corde vocali. Eppure ho affrontato tutto con decisione. Con la voglia di scalare ogni montagna di difficoltà e farcela».
Così Toto decise di affrontare quella montagna e si è regalato altri vent’anni circa di vita. «Mi dissero che avevo un tumore maligno alla prostata, salito fino ai reni…», ha ricordato a Silvia Toffanin, «Mi hanno tolto il rene destro ma ora sto bene, anche se ogni mese devo fare dei controlli. L'unico problema che ho è che non posso camminare tanto, perciò a ogni concerto ho il mio sgabello e canto con la chitarra o con il pianoforte… Quindi me la godo perché ogni giorno è bello vivere, al massimo, con gli amori che incontri, senza fare del male a nessuno e senza ipocrisia».
Mi piace pensare, visto che è vissuto altri venti anni, che quella battaglia l’abbia vinta, anche se alla fine la causa della sua morte è stata il cancro.
Enrico Ruggeri ha scritto alla notizia della sua morte e non le ha mandate a dire, ruvido e trasparente come lo è sempre stato, incurante di essere preso poi di petto da chi non ha mai chiesto scusa, e oggi finge, come una vergine delle rocce, di non sentirsi tirato in mezzo e tace.
È inutile qui ricordare chi è stato Toto Cutugno, 15 volte protagonista al Festival di Sanremo, una vittoria, 100 milioni di dischi vestiti nel mondo, una fama infinita e intoccabile in Russia anche durante il blocco sovietico, ma qui, da noi, in Italia, lui che cantava L’Italiano vero, sempre snobbato, ignorato, svilito, addirittura insultato. «Si va ben oltre il nemo propheta in patria», scrive Libero.
Toto, l’autore che aveva scritto per Mireille Mathieu, Dalida, Johnny Hallyday, Michel Sardou, Claude Francois, Hervé Vilard, e per Domenico Modugno, Gigliola Cinquetti, Ornella Vanoni, e tanti altri, «è stato spesso sottovalutato dall’intelligencija radical-chic nostrana», ha scritto Enrico Ruggeri su X, «Nel mondo molti grandi artisti incidevano le sue canzoni. Ma io non dimentico i Dopofestival nei quali certi giornalisti cercavano di umiliarlo, ricordo gli articoli e certe recensioni. In questo tempo di improvvisati è giusto ricordare chi faceva musica “leggera” con classe, cuore e grande preparazione tecnica».
Ruggeri ha ragione: i critici, certi critici, italiani, di musica e non solo di musica, hanno sempre avuto la puzza sotto il naso con molti grandi artisti italiani, perché erano più sensibili, provinciali
come loro solo, verso tutto ciò che veniva dall’estero, anche se (ne conosco tanti, a fatica parlano un inglese maccheronico), pensate solo che Lino Banfi riceve oggi per la prima volta un premio alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia (meglio tardi che mai).
Mi permetto di correggere solo il mio amico Enrico Ruggeri quando scrive «dell’intelligencija radical-chic!». L’intelligenza non è di quel mondo, l’intelligenza non conosce pregiudizi, snobismi, esclusioni di principio, l’intelligenza è sempre inclusiva.
Ricordo una volta parlando di Fred Bongusto che Dario Fo, che avevo la fortuna di frequentare da ragazzo, avvertì un certo mio snobismo: bastò il suo tono educato ma fermo a farmi sentire una scudisciata sulla schiena: «stai parlando di uno dei nostri più bravi musicisti». Tradotto: porta rispetto per chi lo merita e sa fare cose che tu non sei nemmeno in grado di capire. Imparai subito il messaggio, immediatamente.
Anche quello «chic» raccontato da Ruggeri non esiste in certi critici: chic de che? Gente che si fionda alle conferenze stampa adocchiando il buffet («Se magna») e gadget in regalo a fine conferenza. Una manica di morti di fama, come li chiama Roberto D’Agostino, pronti ad accettare l’invito al primo week end musicale in alberghi a 5 stelle (oggi sempre più rari vista la crisi del settore) per ascoltare in anteprima il concerto proposto dall’ufficio stampa. Ovviamente parlo di “certi critici”, molti sono per bene e lo erano anche con Toto, anzi lo consolavano.
Il rimpianto sta proprio nel mio non capire il perché alla fine anche i grandi come Toto o Banfi ci soffrano per non vender riconosciuto il loro talento da quei critici: «Ma che vi frega?», ho domandato, ma il rammarico è sempre restato.
Anche ora che Toto non c’è più le scuse non sono mai arrivate. Concludo come ho aperto con quello che ha scritto a Cutugno Al Bano: «Canteremo ancora lassù, adesso non posso… ho tanto da fare quaggiù».