Può un artista di questo secolo essere streammato come non ci fosse un domani, attirare sia le folle adoranti che il plauso di Anthony “Melon” Fantano, influenzare un giovinastro su due che provi ad armeggiare con l’Auto-Tune, eppure risultare, nonostante tutto, enigmatico? Calma, non stiamo parlando di un enigma assoluto, alla Burial. Di Travis Scott – che lunedì 7 agosto si esibirà a Roma, al Circo Massimo, per presentare il nuovo disco “Utopia” –, si sa parecchio (googlate ciò che volete e soddisfate le vostre più vivaci curiosità). Tuttavia “spiegare Travis Scott” può non essere agevole. Cresciuto sotto l’egida di Kanye West, Scott nel 2015 – quando la trap, negli States, era già “old news” – sforna “Rodeo”, l’album che lo promuove a nuova realtà mainstream. Per quanto riguarda l’avvincente seguito – il successo di “Astroworld” (2018) e la tragedia dell’Astroworld Festival di New York, dove dieci persone persero la vita – vi rimandiamo alle decine di pagine web che tratteggiano il profilo di un artista dall’immagine sfocata, ma non per questo meno affascinante o ipnotica. Anzi.
Che musica fa Travis Scott? Trap. Ehm, sì grazie ma perché qualche volta suona “strana”? Con quanti produttori ha collaborato finora? Tanti, forse troppi. Quanti featuring vanta? Di nuovo: tanti. Qual è il suo stile di scrittura? E poi: rappa come Dio comanda – come un Freddie Gibbs, per citare il primo bravo sul serio che ci viene in mente – o biascica, seppur artisticamente? Queste sono domande che, in teoria, dovrebbero mettere in crisi i neofiti o chiunque abbia messo la testa sulla trap solo quando Guè Pequeno se ne saltò fuori con “Trinità” nel 2017, e invece queste stesse domande potrebbero impensierire anche buona parte di chi urlerà e pogherà al Circo Massimo. Perché? Perché i nuovi pubblici rifuggono dall’idea di “analizzare” qualcosa, compresi i pezzi del loro idolo? Tanto basta “sentirli dentro”? O perché Scott incarna un archetipo di artista che fa della propria fuggevolezza – leggi anche “la camaleontica capacità di cavalcare un’onda senza dare l’idea di farlo” oppure “la scaltra capacità di conferire un’estetica avant-garde a un’arte chart-friendly" – il suo vero stile? La questione, forse, è questa. Quando finalmente credi che Scott sia qualcosa, la questione anziché semplificarsi, si complica. Asso del branding – come ormai compete a chi negli ultimi tre lustri abbia preso in mano un microfono per rivolgersi a centinaia di migliaia di fan/follower –, Scott vende la sua bevanda alcolica, Cacti, e associa la sua immagine a McDonald’s. Ehm, c’è qualcosa di sofisticato in tutto questo? Non proprio, ma forse sì se prestiamo attenzione a come Scott sia, in fondo, un maestro del depistaggio. Perché se vendere un Big Mac può apparire una trovata davvero troppo pigra per una delle figure più evolute del mondo urban, è nel momento in cui Scott pondera attentamente ogni mossa artistico-musicale che la sua pubblicità al più famoso fast-food di tutti i tempi assume un significato diverso. Una mossa che confonde e attrae. Chi è quindi Travis Scott? Un produttore di versi talvolta astratti – verrebbe da dire “monchi”, non fosse che il trick è voluto – o il promotore di uno stile di vita visto e stravisto? Entrambe le cose, allo stesso tempo. Del tipo: sono uno di voi, ma insieme a me, in una notte di bangers e ritornelli obliqui, potete vibrare su frequenze (s)conosciute.
Date un occhio alla lista dei featuring del nuovo – già controverso – “Utopia”, uscito solo una settimana fa: Drake e Beyoncé sul fronte superstars, Bad Bunny e The Weeknd per provare a far saltare più tavoli contemporaneamente con “K-Pop”, James Blake per aggiungere un altro nome alla lista intitolata “Non mi sarei aspettato/a che Scott collaborasse con”. Per non parlare dei produttori: una selva, fra fedeli sodali (Mike Dean, WondaGurl. Tay Keith) e clamorose new entry (in “Modern jam” c’è lo zampino di uno dei due Daft Punk, Guy-Manuel de Homem-Christo). Se quindi la trap, quella trap ormai divenuta suono ampiamente globale, è ancora il fulcro bollente dell’arte di Scott, tutto ciò che ci sta attorno e che innerva quel centro è qualcosa di più fumoso e al contempo visionario. Tanto che in “Utopia”, album già destinato a una futura rivalutazione, Scott sembra quasi fuggire da sé provando comunque a rimanere riconoscibile. Alla trap ci si arriva, perché ci si arriva. Ma attorno ci sono gli anni ’80 più stilizzati, la melodia di qualcosa che somiglia a un carillon, un pezzo in cui Scott si attorciglia su sé stesso poi si ferma e riparte, un altro brano in cui il monotono “la la la la” di una bambina è seppellito da un testo nero come pece, guazzabugli psichedelici in cui il rapper di Houston pare provarci per vedere che effetto fa. E potremmo andare avanti ancora. Senza darvi eccessivi riferimenti, anche noi fumosi come il buon Travis, colui che Mattia Barro, di recente, dalle colonne di Rolling Stone, ha giustamente definito “un’allucinazione”. A commento della data milanese, ha scritto: “Moda, drop, collabo, festival, Fortnite, “Astroworld”. Parliamo di un artista che si permette tour da 80 mila persone ancor prima del quarto album, esattamente il doppio – per darvi una proporzione – di quante ne ha portate Kendrick Lamar lo scorso anno. A ricordarci quanto oggi il peso di un artista si misuri sempre più per l’ampiezza e la luminosità dell’universo creato che per i dischi in sé”. A completare quest’opera stratificata e perennemente “in costruzione” in cui l’artista Scott è performer, venditore, influencer e attento cultore della propria personalità, adesso c’è anche “Utopia”. In cui Scott alle pretese commerciali (sempre manifeste) aggiunge ambizioni arty ora a fuoco, ora splendidamente elusive. “Elusive”: per noi italiani è un plurale da appiccicare a qualcosa di femminile. “Elusive” in inglese: imprendibile, vago, sfuggente, elusivo.