Quaranta minuti di parola recitata, raccontata e danzata. Per Davide Rondoni, che ha aperto l’evento martedì 17 all’Arena del Sole di Bologna, poesia e danza sono due arti affini. E, spiega, la poesia è una voce e le cose grandi, come questo spettacolo, non devono essere lo shock di un momento, ma lo stimolo a continuare su quella strada. Tornato a casa ho ripreso in mano Tutte le poesie di Emily Dickinson e Figlie dell’oro, il romanzo di Flaminia Colella che ha ispirato la performance. Ho guardato le orecchie fatte ad alcune pagine, eresia per alcuni. E ho pensato che ieri abbiamo visto qualcosa di eretico. Quaranta minuti in cui si parla e basta, si danza sotto la parola, luce buia, gente zitta, cellulari spenti. Tutti nel solco lasciato dai passi e dall’attrezzo con cui Dickinson scandaglia il mondo alla ricerca dell’oro. L’evento, organizzato dall’associazione Incontri esistenziali, vede la partecipazione di un’ospite d’onore, Galatea Ranzi, maestra del teatro italiano (premio Duse proprio a Bologna) e attrice incredibile, appassionata di poesia, quell’arte che nega la decadenza, poiché resiste, che fa da contraltare a quella “grande bellezza” che, insieme a Toni Servillo e sotto la direzione di Paolo Sorrentino, ha messo in scena nell’omonimo film (che vinse l’Oscar).
Ci sono attori che rubano la voce dei propri personaggi e attori che sovrastano tutto con la propria. Ma Emily Dickinson non è un personaggio, è una persona reale che, nascosta nelle sue stanze, ha sviluppato l’astuzia del genio. E Galatea Ranzi, ieri sera, sembra l’unica al mondo in grado di restituire, con la propria voce, una voce alla poetessa autentica. A distanza di due secoli, una voce che va all’indietro, come un contraccolpo del vento. Colella è invece una presenza discreta sul palco, lei che della ricerca dell’oro ha fatto una ragione di vita, una “guerrafesta” (suo il neologismo). Sul lato sinistro del palco osserva la scena, Ranzi seguire il suo testo, bilanciare con la voce la forma della prosa, come antichi logografi. E Rebecca Mazzola, che ballando le coreografie di Ornella Sberna, tende le mani verso Colella, verso Ranzi, verso il pubblico, contorcendosi come il bulbo di un fiore elettrificato dalla lirica. Figlie dell’oro che illuminano un palco vuoto e scuro.