Ci sono compleanni che non possono essere ignorati, perché di dischi che hanno segnato un'intera generazione, anche se al loro battesimo sono stati facilmente catalogati in prodotti sbanca classifica e poco altro, con quello snobismo tipico che un po' ci appartiene. Oggi è proprio una di quelle date da segnare in rosso sul calendario: trent'anni fa, infatti, usciva Hanno ucciso l'uomo ragno, il primo album degli 883 (chiamati così in onore della moto Harley Davidson), un successo discografico capace di far rosicare "serenamente" altri artisti già popolari e specchio di chi ha vissuto l'adolescenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Ma voi ve li ricordate i favolosi anni '90? Che tempi! Io ero solo una bambina di pochi anni che s'affacciava alla vita, lontana quindi dai casini dell'epoca ben raccontati nel disco, casini che riguardavano gli adolescenti di allora. Apatia giovanile, disagio generazionale, noia, sfiducia nel futuro, sono queste le fondamenta di un progetto che deve la sua buona riuscita a una comunicazione immediata e all'uso di uno slang giovanile accessibile a tutti.
Rompiamo dunque (e senza timore) gli indugi, Hanno ucciso l'uomo ragno è davvero un bel lavoro, e anche meno commerciale di quanto si possa pensare e si pensava allora (complice pure la produzione di Cecchetto). Max Pezzali e Mauro Repetto erano infatti ancora nel pieno di quell'ingenuità embrionale che ha trasformato il loro primo disco in un gioiellino da tramandare ai posteri. Quante volte avete ascoltato la mitica cassetta? (sigh, esistevano ancora). Dalle 100 alle 100.000 di sicuro, ci metterei - e senza paura - la mano sul fuoco. Il mio personale flashback mi riporta a mio padre che guida cantando a squarciagola la titletrack, mentre io, di rimando, non afferro nemmeno il senso di una parola. E voi ve lo ricordate l'album?
L'apertura del disco è affidata a Non me la menare, un po' di rock e una spruzzata di rap in un reciproco scambio d'accuse tra fidanzati. "Dici sempre che io non mi so comportare/Che non son capace neanche di parlare/Di quegli argomenti da laureati/Di cui parlan sempre tutti i tuoi amici sfigati/Non me la menare/Non capisco cosa vuoi/Tanto lo sapevi/Che non ero come voi". Con questo brano i due pavesi sono arrivati pure in finale al Festival di Castrocaro (quando contava ancora qualcosa) nel 1991.
Si prosegue con S’inkazza (Questa casa non è un albergo), in cui è centrale l'eterno scontro tra genitori e figli. "Questa casa non è un albergo (ah)/Lo dice anche papà (lo dice sempre sì)/Tu te ne freghi non hai rispetto (tu te ne freghi)/E neanche la dignità". L'accoppiata seguente 6/1/sfigato e Te la tiri strizza ancora l'occhio all'hip hop e prende in giro chi si atteggia ad essere ciò che non è.
Arriviamo velocemente alla titletrack, canzone cult, che raffigura - come spiegato dallo stesso Pezzali - la metafora della società, nascondendo quindi un messaggio meno superficiale di quanto melodia e abbinamento col personaggio dei fumetti possano far pensare. I nostri la "cantano", infatti, senza tanti giri di parole, ai miti del consumismo (che hanno ucciso la parte positiva della società, alias l'Uomo Ragno), dallo sviluppo economico alla pubblicità, accumunata non a caso alla malavita. "L'Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti", così racconta lo stesso cantante. All'epoca alcuni critici provarono ad associare la canzone a un messaggio sociale, con un accostamento alle stragi della mafia di quell'anno (Giovanni Falcone), ma la canzone era stata scritta prima dei fatti, quindi forse - come tutte le canzoni ben fatte - "solo" capace di valicare i confini del tempo. Col brano in questione il duo si aggiudica anche il premio come “Rivelazione dell’anno” a “Vota la voce” (altri tempi).
Andiamo avanti Con un deca (la banconota da dieci mila lire, ndr), a tutti gli effetti il brano più riuscito del gruppo, una spruzzata di energia rock che passa dal lento di una chitarra acustica e che ben racconta la realtà di vita della periferia (che i nostri ben conoscono) e dalla quale si sogna di fuggire, prima o poi. Il tutto è condito da un filo di malinconia. "Con un deca non si può andar via/Non ci basta neanche in pizzeria/Fermati un attimo/All'automatico/Almeno a piedi non ci lascerà/In questa città".
Con Jolly Blue torniamo invece a rockeggiare e finiamo dritti nella vecchia sala giochi in cui Max e Mauro passavano il tempo a divertirsi con gli amici. "Jolly Blue, la sala giochi/Jolly Blue, piena di giochi/Jolly Blue, la sala giochi/Che per noi era un non so cosa/Forse una seconda casa".
Il disco si chiude con Lasciati toccare, ancora suoni hip hop per raccontare una serata tipica in discoteca, dal punto di vista di chi va letteralmente in bianco e si accontenta di osservare la figa di turno. "Lasciati toccare fa sentire cosa c'è/Lasciati slacciare sei una libidine/Lasciati toccare fa sentire cosa c'è/Lasciati slacciare sei una libidine". Segue a ruota una discutibile versione gospel di Non me la menare, inserita più per mandare in stampa il disco (con un minutaggio decoroso) che per altro.
Negli anni 2000 sono state realizzate anche ristampe dell'album (2000 & 2012), con delle bonus track buone e altre di cui potevamo fare tranquillamente a meno, ma quest'insulsa aggravante non mette in discussione la validità del disco, che ancora oggi in tanti snobbano con risibile superiorità. No, mi spiace per loro, non sono solo canzonette, ma la nitida fotografia del ragazzo medio degli anni Novanta, nata dalle mente di due giovani pavesi compagni di banco, con la passione per la musica e la voglia di scrivere canzoni. La favola breve degli 883 (Repetto ha mollato quasi subito, lanciandosi in una sfortunata carriera da solista) parte proprio da quest'album, un vero e proprio spaccato di storia, che vi piaccia o meno.