Venezia. È agosto e io sono in vacanza a Ischia con mio figlio Maximus. Stiamo andando al mare e mentre ci dirigiamo a piedi dal porto alla spiaggia ricevo un messaggio su WhatsApp. È Tizza Covi, una dei miei due registi (l’altro è il suo compagno, Rainer Frimmel). Mi scrive che il nostro film Vera, ispirato a un periodo particolare della mia spericolata, coraggiosa e dichiarata vita, è ufficialmente in concorso al settantanovesimo Festival internazionale del cinema di Venezia. Mi spiega che farà parte della sezione “Orizzonti”, che lei considera la più interessante in assoluto del festival. È la sezione ufficiale dove concorre il cinema d’autore, quello più puro e indipendente ma non per questo con meno eco internazionale. Basti pensare che quest’anno ci sono film in concorso con attrici come Penelope Cruz o Isabelle Huppert (una delle più premiate in assoluto ai festival). Aggiunge che in questa sezione ci sarà un premio al miglior film, migliore regia, migliore attrice protagonista e migliore attore. Dopo aver esternato la mia gioia e la mia sincera riconoscenza a Tizza e Rainer per aver creduto in me e aver voluto fare questo film a qualunque costo, decido di buttarmi in acqua e fare il punto della situazione, sola con il mare. Inizio a nuotare a rana allontanandomi sempre di più dalla riva e piango. Le mie lacrime si perdono nell’acqua e questo mi fa sentire protetta. Piango per tutte le volte in cui non ce l’ho fatta, perché vorrei raccontare a mio padre, guardandolo negli occhi, che per una volta può essere fiero di me. Piango perché non posso fare a meno di essere felice. Piangere nel mare significa non essere visti da nessuno, potersi sfogare liberamente, confondere le lacrime con l’acqua, dissolvere la tua emozione in uno spazio infinito e ridimensionare tutto.
Nuoto e parlo con i miei angeli che più volte mi hanno vista soffrire quando le cose non andavano proprio come avrei voluto io, perché so che hanno desiderato questo per me e in qualche modo hanno fatto in modo che avvenisse. Io credo profondamente in ciò che non si vede e non penso che la morte sia così potente, non mi fa paura. L’ho sfidata più volte infatti. Semplicemente sono cosciente che l’amore è sempre più forte e quando è autentico e puro, non conosce fine, è molto più potente di tutto, è la vera star che se ne frega di tutto e continua ad aleggiare prepotentemente nel vento. Infatti dico spesso a mio figlio Maximus che non si libererà mai di me perché anche quando non sarò più presente fisicamente, in qualche modo sentirà la mia energia e nei momenti difficili, saprà esattamente cosa fare. D’altronde come dice un uomo che mi piace molto: “È tutta una questione di energia”. È non limitarsi ad avere fede solo nel tangibile o in ciò che è dimostrabile con i fatti, è un dono assoluto che produce miracoli e anche i miracoli esistono, non li faceva solo Gesù. La semplice vita, per quanto meravigliosa, non mi ha mai convinta come unica risposta, forse perché avevo troppe domande rispetto a chi viveva delle ingiustizie, ai bambini del Paesi più poveri, a chi era sotto la guerra. Inoltre sono sempre stata capace di riconoscere segnali che arrivavano da mio padre e da mia madre, veri e propri messaggi di allerta che mi hanno aiutata a capire cosa fosse giusto e cosa no.
Questo talento credo di averlo da quando sono piccola, non me l’ha insegnato nessuno né l’ho imparato con la perdita delle persone care o dai libri di filosofia o spiritualità che ho letto, ce l’ho e basta, posso permettermi il lusso di nuotare piangere e parlare con gli angeli nello stesso tempo senza dubitare assolutamente di nulla. D’altronde facendolo non vengo né a rubare a casa vostra né vi costringo a crederci, ognuno sente e crede ciò che vuole, io parlo con i miei genitori a voce alta come se fossero vivi, consapevole del fatto che la mia voce gli arriva forte e chiara e parlo anche con Dio, mi sforzo di non dimenticarlo, perché come in ogni storia d’amore che si rispetti, se lo dimentichi prima o poi lui ti dimentica. La mia parte pratica, che convive egregiamente con quella spirituale, chiama immediatamente una stilista per trovare abiti per Venezia. La stessa stylist, di cui evito (per il suo bene e non certo per il mio) di fare il nome, dopo avermi promesso che penserà lei a me e ai miei abiti mi mollerà a una settimana esatta dal festival in quanto essendo ancora agosto gli showroom degli stilisti più in voga, gli unici con cui una grande artista come lei può lavorare, saranno ancora chiusi. Se ne fregherà del fatto che io non sappia cosa mettermi pur di mantenere la sua grande reputazione di “infila vestiti” firmati, interessata a stilisti accettati ed esaltati dal magnifico sistema della moda e dello show business e pur di non interagire con stilisti meno famosi (magari pure geniali). Mi lascia nella merda. Cominciamo male. Molto male. Questo episodio apparentemente stupido mi fa sentire nuda e abbandonata (in fondo come ogni sex symbol che si rispetti, ho le mie turbe psicologiche che vanno capite). Una volta a Roma all’ultimo minuto mi salvò Gabriele Fiorucci. Amico e creatore di abiti bellissimi a cui sono riconoscente ancora oggi. D’altronde a Venezia non potevo andarci né nuda né in jeans, né con i miei abiti perché pare che qualcuno che ti vesta sia fondamentale ai festival e devi anche dichiararne il nome, per essere degna di percorrere il famoso tappeto rosso, ambito persino da Satana (il quale dovrebbe accontentarsi della visibilità che ha nel mondo, ma non rinuncia al tappeto rosso di Venezia manco morto). Sento una certa ansia da prestazione pur non dovendo fare nulla e considerando che il mio lavoro di attrice già l’ho fatto, vorrei liberarmi da questa scomoda sensazione di non essere all’altezza di non so neanche io bene cosa. Rimediati i vestiti e messi in valigia i miei cappelli da cowboy, sono pronta per questa meravigliosa avventura.
Premetto di non aver visto nulla del mio film, neanche una scena. Tizza e Rainer vogliono che io viva l’emozione di vederlo per la prima volta lì, per me va benissimo. La mia amica Monica Bellucci non è d’accordo e mi dice severa: “Amore no. Devi vederlo, devi sapere quello a cui vai in contro”. E a che cosa andrò in contro mai? Ne ho passate di tutti i colori nella vita. A Los Angeles ho risposto al telefono in un sereno pomeriggio californiano e mi hanno detto: “Suo padre non c’è più, è morto in un incidente stradale stamattina”. Mia madre è morta di cancro quando avevo poco più di vent’anni, sono stata arrestata tre volte, ho fatto la stripper sotto la mafia armena, sono sopravvissuta a tutte le droghe, a inseguimenti in macchina, con fidanzati criminali alla guida, a sfruttatori senza ritegno, ho rischiato la vita al circo entrando in gabbia con tigri e leoni (e quei felini, credetemi, sono imprevedibili), mi sono fatta lanciare accette e coltelli contro schivandoli magistralmente, ho scritto la lettera del suicidio già quando ero adolescente, perché incompresa e bullizzata, perché mi rifiutavo di omologarmi agli altri. Potrei andare ancora avanti per ore con il mio male di vivere, il mio amore per il rischio e tutte le volte in cui non volevo più esistere. Fatto sta che sono ancora qui (purtroppo per voi) e non riconosco nessun pericolo nel vedere il mio film a Venezia per la prima volta. Sono consapevole di aver dato tutta me stessa e di aver versato lacrime reali e salate. Più di quello che ho fatto non potevo e se non mi piacerà il risultato, troverò comunque un modo per perdonarmi e assolvermi da tutti i miei peccati come ho sempre fatto. Rispondo comunque a Monica: “Hai ragione lo guarderò prima di partire” perché tutto questo discorso le metterebbe ansia (a chi non la metterebbe d’altronde). E non lo guardo, né insisto con i miei registi per farlo. Arrivata a Venezia noto con piacere che il festival mi ha riservato un magnifico hotel a 5 stelle con vista sul canale, il ché provoca in me un senso di giustizia finalmente compiuta, dopo soli trentacinque anni di porte in faccia per non aver rinunciato al mio modo di essere, non aver mai leccato il culo al potente di turno, né intrallazzato nei salotti del cinemino italiano, dopo essere stata l’unica figlia d’arte a essersi sempre rifiutata di lavorare con il padre (Giuliano Gemma, tra l’altro; non pizza e fichi). Forse questa stanza me la merito. E pure tutto questo lusso in cui mi muovo con una certa agiatezza e dimestichezza. In fondo sono cresciuta in una villa con piscina, due campi da tennis e un parco giochi, mio padre guadagnava cifre che il cinema italiano di oggi può solo sognare.
Da bambina sulle ginocchia mi teneva Sergio Leone, che era l’uomo più semplice, diretto e grezzo che io abbia mai conosciuto, non vantava nessuna presunzione intellettuale, come fanno molti dei registi italiani di oggi, eppure era un genio assoluto che ha dettato legge a molti su come fare il cinema. Lui si sforzava sempre di capirmi e aveva uno sguardo protettivo nei miei confronti. In una fase della mia vita in cui mi sentivo una bambina ignorata e incompresa – a sei anni più o meno avevo gli stessi pensieri che ho adesso, capirete quindi che sono nata precoce e diversa – Sergio mi osservava e mi faceva sentire importante. Quando avevo quattordici anni mi disse: “Adesso ce penso io a farti fa l’attrice a te!” Parlava sempre con un accento romano. Voleva darmi un ruolo in un film che aveva scritto sulla Russia. Pochi mesi dopo è morto. Ho pianto tantissimo ma non per il film, di quello non mi importava più oramai. Perché se ne andava una delle poche persone che mi ha fatto sentire apprezzata. Da quando sono arrivata a Venezia ho solo ricordi legati alla mia infanzia e alla mia adolescenza nel cinema, continui flash, immagini, voci frasi. Disfo la valigia e capisco immediatamente che la bella stanza e l’hotel non avrò certo tempo per godermeli. Se fossi stata alla pensione “La gondola” o qualcosa di simile sarebbe stato uguale. Infatti trovo un foglio sulla scrivania del Settecento con un programma fittissimo fatto di serata inaugurale (invito ufficiale) giornata a venire zeppa di interviste e diversi messaggi della mio storico ufficio stampa Daniela Piu (che crede in me da tempi insospettabili), che mi scrive di prepararmi che sta arrivando e che ci sarà molto da lavorare. Daniela è una press office che crede profondamente nei personaggi che cura, è seria, incorruttibile e se ne frega dei soldi. Nel frattempo da giorni in tv e anche al festival si parla solo e unicamente del film di Elodie. La famosa cantante italiana al suo debutto nel cinema. Elodie impera nella copertina di Vanity Fair con tanto di servizio all’interno, forse dodici pagine piene di lei bella e sensuale in diverse pose e stili: ci sono locandine del suo film e ovunque si attende il suo arrivo. Gli speciali in tv sono tutti per il suo film, sembra che gli altri capolavori in concorso accompagnino silenziosamente la star indiscussa del festival. Oltre che regina del glamour che ha fatto del suo corpo un’opera d' arte. Di me e del mio film non parla nessuno. Zero assoluto.
Nemmeno un accenno. Il silenzio degli innocenti. Eppure i miei registi sono pluripremiati nel circuito europeo, hanno già vinto un premio della critica a Cannes e con il loro primo film, hanno avuto una candidatura all’Oscar per l’Austria oltre a una lista infinita di altri premi (che potete leggere su Wikipedia). Gli speciali di mamma Rai (mamma di chi? Io non la voglio una madre così!) lo ignorano completamente, credo non siano neanche al corrente che questo film esista. D’altronde Vera è di produzione completamente austriaca e in Italia non ci mangia nessuno, il fatto che l’attrice protagonista sia italiana sembra lasciare tutti completamente indifferenti. Vorrei con questo specificare che io non ho nulla contro Elodie, che è una gran fica e una bravissima artista, anzi la mia parte omosessuale (che tutti abbiamo, ma io lo ammetto) nutre per Elodie anche un certo desiderio, e vede nella bellezza delle donne in generale la prova della perfezione della natura. Da sempre rispetto la bellezza e il talento degli altri e cerco se posso di imparare, rubare segreti o semplicemente di lasciarmi ispirare e prendere energia da quella tenacia, presenza scenica e, forza, di donne che, come lei, catturano l’attenzione, vere mantidi religiose per cui non esisteresti un attimo a morire. Ma questo non giustifica ignorare altri film dove non è attivo il magico e ormai noto “magna magna” che c’è tra politica, cinema e televisione nell’Italia “della crisi” (e te credo). Magna magna di cui tutti sono al corrente ma non se ne può parlare altrimenti hai chiuso con l’arte e le ambizioni, sei morta, destinata alla fame, al rogo come Giovanna d’Arco, che diceva la verità ma nessuno le credeva. Si parla anche di Penelope Cruz che quest’anno ha ben due film al festival (di cui uno nella mia stessa sezione). Dei film si sa poco, a parte che uno è di un regista italiano, ma la notizia che quest’anno è vestita dalla maison Chanel si diffonde in un attimo come il Covid e in questo mondo pieno di incertezze ci rifugiamo in questo dato di fatto che ci fa sentire tutti più sicuri. Una notizia fondamentale che avrebbe esaltato registi come Pier Paolo Pasolini o Federico Fellini. Da giorni infatti il festival, sulla stampa italiana più accessibile, sembra ridursi ai voti per i look di Vanity Fair (sempre loro). Giornale che capisce poco di moda. Se sei pallida, affamata, anoressica, con i capelli corti, indossi abiti costosissimi di stilisti a cui Vanity Fair, appunto, deve leccare il culo, e non sei sexy: hai vinto.
Ma se sei una donna tipo me, che pur non essendo una dea di perfezione dall’età di tredici anni agli uomini fa pensare al sesso, Vanity Fair ti condanna e ti lancia le pietre come provarono a fare con Maddalena (per fortuna fermati da Gesù, che di Maddalena, secondo una mia personale teoria, era innamorato). È questo il vero esame da passare. Tu puoi essere la più grande attrice del mondo ma se Vanity Fair ti dà un bel 4 al look hai perso un’opportunità. Quella di essere accettata da loro e di conseguenza dai lettori lobotomizzati dalle cazzate, che così stanno buoni, pagano le tasse allo Stato ladro e non fanno la rivoluzione. Rincoglionimento totale e l’ambizione di arrivare in cima a un mondo irraggiungibile e ideale dove anche tu potrai spendere ventimila euro da Dolce e Gabbana. Come se l’eleganza avesse a che fare sempre e solo con la ricchezza. Come se fosse sempre tutta una questione economica. Io che ho sempre creduto in “Liberté, Égalité, Fraternité” e che sarò sempre troppo rock ‘n’ roll nella vita indipendentemente da come mi vesto, temo comunque questo giudizio, essendo entrata al concorso come quando ti sei presa un trip in un viaggio che non avresti voluto intraprendere ma che si è impossessato di te, prepotentemente. Mi ricorda, tanto per tornare al cinema, L’esorcista. Sono posseduta dal cazzo di Vanity Fair. Non essendoci un prete che mi libera dalla rivista glamour, posso solo confidare in Dio, fare la fame per entrare nei vestiti taglia trentotto ed essere abbastanza magra ed elegante così da sentirmi degna di fare l’attrice. Sono ufficialmente rincoglionita da un sistema di regole effimere e inutili, ma so che non mi avranno mi riprenderò prima o poi, è sempre più forte la voglia di massacrare tutto. E sempre più vera è questa verità, che io sono nata diversa e morirò così.
Il problema della taglia trentotto non esiste perché scoprirò nei giorni seguenti che a Venezia si fa la fame. Non c’è proprio il tempo per mangiare. Corri da una proiezione all' altra facendo tantissime foto, interviste e la fame non la senti più, non hai il tempo nemmeno per un Ave Maria in segreto (una preghiera non fa mai male, ma li non la fai). Penso alle domeniche nella villa dove sono cresciuta. Avevo circa dieci anni e il cinema italiano di genere si mischiava in meravigliosi pranzi cucinati da mia madre Natalia, sotto al porticato della dimora. Oggi la mia amata casa è diventata un business, si chiama “La villa del sogno”. Potete vederla tutti su internet. Non è più mia ma se volete potete andare a sposarvi là, vi organizzano tutto loro. Io preferisco ricordarmi di Edwige Fenech, Barbara Bouchet e Mariagrazia Buccella che si abbronzano o fanno ginnastica sul mio prato con la musica di un mangia nastri. E me, in disparte, che sogno di diventare una diva famosa come loro. Mi debbo preparare per la serata inaugurale. Penso a Barbara e a Edwige. Alla loro ostentazione senza vergogna di d’essere femmine. D’altronde sono state le attrici della commedia sexy all’italiana, e successivamente le trans, la mia scuola di femminilità. In comune hanno proprio questo: l’orgoglio, l’ambizione e la fierezza di essere femmine. Il mio abito di Gabriele Fiorucci è nero, lineare, semplice e lungo fino ai piedi, il taglio a sirena valorizza il mio fisico desiderabile grazie al quale sto percorrendo passi da gigante. Mi guardo allo specchio e penso di essere bellissima (d’altronde non vedo perché fingere un’umiltà che in questo momento non mi serve, né mi appartiene). Già mi vedo rispondere a domande del tipo: “Quanto ha contato la bellezza nella sua carriera?” E visualizzo una prossima vita in cui rinascerò strafica e completamente scema, all’idea provo un senso di pace e liberazione che non ho avuto nemmeno a Gerusalemme di fronte al muro del pianto. D’altronde, da sempre, la mia intelligenza, mi ammala. In stanza sono entrate prepotentemente bussando alla porta le truccatrici di Giorgio Armani e i parrucchieri di Cotril, entrambi sponsor del festival. Parlano e decidono fomentate ma per fortuna ho voce in capitolo su come vorrei apparire.
Il risultato è eccellente, la mia acconciatura e il trucco sono impeccabili. Da sola non ne sarei mai stata capace. Unico problema sono i trampoli che indosso sotto al vestito per creare “l’effetto sirena nera” ed essere alta e snella come nessuna è mai stata nella storia del festival. La mia ansia di attirare l’attenzione a questo punto è totale. Potranno pure ignorare il mio film ma non potranno mai ignorare me. Mi coglie l’esaltazione poetica e inizio a vagare con il cervello. Vorrei dipingere le mie iniziali a caratteri antichi e riempirle di colore oro su tutte le gigantografie e le locandine di Venezia, le dipingerei anche sui muri, sui mobili, sugli oggetti perché si capisca che io ci sono e sono dappertutto. Non morirò, perché morire senza essere nel cuore di qualcuno non mi è concesso, così come non era concesso a mia madre. Voglio morire viva e il più tardi possibile. Perché questa cazzo di vita faticosa, impunita, questa puttana esigente che ti toglie tutto, mi eccita terribilmente, mi piace troppo, mi piacerebbe anche se non avessi una gamba, anche se non camminassi più, quel che conta è continuare a pensare, pensare pensare pensare pensare troppo. Il vero miracolo è che io con quindici centimetri di tacchi, salendo e scendendo dalle barche dirette verso il Lido, non sia ancora caduta nel canale. E fidatevi, è stata più dura che interpretare me stessa nel film con tutte le mie debolezze, rivivere traumi del passato e non preoccuparmi di essere approvata pur di fare un lavoro onesto. Una volta arrivata al palazzo del cinema mi bloccano davanti al fatidico tappeto rosso e mi impediscono di passare, non mi ero fatta questo film nella testa mentre mi riempivano di fondotinta di Giorgio Armani e la lacca lucidate di Cotril si diffondeva nella mia stanza. Cerco di mantenere la calma e di essere umile come mio padre mi ha insegnato e dico: “Sono Vera Gemma, ho un film in concorso al Festival e vorrei fare il tappeto rosso per cortesia, penso sia un mio diritto”.
Una guardia del corpo o non so bene cosa sia mi dice: “Mi dispiace non la posso far passare, il tappeto rosso ha chiuso quindici minuti fa”. So che in qualche modo troverò una soluzione perché quello che è un tuo diritto nella vita te lo devi prendere anche a costo di sparare. Premetto che i giorni prima avevo visto ovunque video di influencer di questa minchia (proprio questa) e gente uscita dai vari “grandi fratelli” percorrere quel tappeto neanche fossero i fratelli Lumière (che per chi non lo sapesse hanno inventato il cinema). Uno, addirittura, pur di far parlare di sé, si era inginocchiato sul tappeto chiedendo la mano alla sua fidanzata e la cosa grave è che il triste avvenimento (triste perché forse era un’altra la sede dove chiederglielo, magari in privato) aveva anche fatto notizia. E chiarisco anche qui. Molte influencer, sebbene ancora mi sia poco chiaro il significato della parola, forse perché io mi sento influenzata, mio malgrado, da Bukowski, John Fante, Anaïs Nin, Baudelaire e pochi altri (che non hanno mai avuto un account Instagram), dicevo, molte influencer sono bellissime e le vorrei (tornando al lato omosessuale) in un harem dove io sono una regina circondata di femmine svolazzanti con abiti meravigliosi e sexy e tette al vento, quindi amo guardarle, le osserverei per ore con i loro educativi tutorial sul trucco e in posa mentre attraversano le strade di Milano con espressioni stupite da foto rubata come fossero lì per caso, ho grande rispetto della loro bellezza e sensualità, nessuna invidia solo ammirazione. Ma onestamente, con il festival del cinema di Venezia, non c’entrano proprio un cazzo. Mio padre diceva se a un festival non hai un film non ci devi andare. E basta dire che è così dappertutto per favore. Basta giustificare gli orrori e la superficialità dell’Italia dicendo “Eh ma che non lo sai? È così ovunque”. Non è così al festival di Cannes, non è così alla notte degli Oscar e non sarà così al festival di Les Arcs, al festival di Rotterdam e nei trentasei festival dove in seguito andrò con il mio film vincendo premi dappertutto. È così in Italia, punto. E io che ho un film nel concorso ufficiale del festival vengo bloccata di fronte al tappeto rosso e trattata come una che si vorrebbe imbucare. Una cosa molto triste e grave di cui il festival si dovrebbe vergognare e che sono felice di poter finalmente raccontare. Se non lo sa il festival quali sono le attrici con i film in concorso, chi cazzo lo deve sapere, mia nonna?
Neanche mi importa de sto' tappeto di merda, ma intanto ho promesso al mio amico stilista che l’avrei fatto e lui ci teneva molto per il vestito e poi se lo merita. Inoltre a questo punto è una questione di principio. Tutte le zoccole del mondo sì (che Dio le benedica, sono piena di amiche zoccole, non sto criticando la categoria), ma le attrici protagoniste dei film in concorso no. Ok, non rispondo, mantengo la calma e mi avvio all’entrata del palazzo del cinema dove ci sarà la serata inaugurale. Una volta entrata intravedo uno sbocco verso il tappeto rosso dall’interno con una guardia del corpo attenta a non fare passare nessuno. E lì Vera, quella che non si ferma neanche di fronte alle bombe, agisce. Corro verso la guardia e gli dico talmente sicura di me da poter cambiare una legge in parlamento in trenta secondi. “Devo assolutamente fare il tappeto rosso ora, la produzione del film me lo impone o sono nei guai”. E lui, più sveglio e intelligente dell’altro (e forse con una tv in casa), mi dice: “Prego, vada pure”. E percorro questo cazzo di tappeto rosso con tutta la rabbia ma soprattutto la dignità che mi è rimasta. Sono rimasti pochi fotografi ma chi se ne importa, quei pochi mi riconoscono, mi chiamano e mi fotografano. Io sto sempre dove debbo stare, il mio spazio che mi sono meritata con le mie forze il mio talento e il mio sangue (e non facendo i pompini) me lo prendo tutto, cazzo, sebbene io abbia grande rispetto per chi con i pompini è arrivata fino al tappeto rosso perché evidentemente li ha saputi fare e anche questa è un’arte sacra che io per prima ho cercato di affinare nel tempo (anche se non per lavorare, semplicemente per passione). Rispetto anche e soprattutto è stata una brava attrice, per favore. E tappeti rossi popolati soprattutto di questo in futuro. Attrici con film in concorso o fuori concorso, è uguale, ma meno sfilate inutili, perché francamente avete tutti rotto il cazzo a santificare personaggi che non hanno nessun talento e niente da dire. È un sistema malato, superficiale e diseducativo per chi il cinema lo fa e lo ama davvero, per chi paga un prezzo alto per essere artista e combatte il sistema capitalista dall’arte non perché sia un eroe ma perché gli viene naturale. E anche se lo dico solo io lo pensano tutti, persino chi quei pompini se li è fatti fare in questo momento segretamente, mi sta dando ragione. Solo che avendo fatto una promessa devono mantenerla.
È stato più facile partorire mio figlio. Seduta in questo teatro vestita come Rita Hayworth in Gilda mi estranio dalla situazione e penso. In questa serata veneziana vorrei qualcuno che si arrabbi con me e per me, non più anime corrotte ma una creatura pura, neve fresca e vergine mai calpestata, qualcuno che non chieda più di essere salvato a chi si salva da sola da troppo tempo e vomita pensieri che nessuno mai raccoglierà. Mentre Venezia intorno a me si trucca troppo e brilla, piena di colori, di gente che non ti guarda negli occhi per paura che le rubi chissà cosa, tu che dentro hai talmente tanto amore e dolore che vorresti venderlo o addirittura regalarlo, tu che non hai certo bisogno di rubare, tu che sei stata scippata di entusiasmi, verità, sangue e madre. Mi giro istintivamente e seduta dietro di me c’è Julian Moore, la fisso seria poi le sorrido con gli occhi lucidi e lei come se mi leggesse dentro mi sorride con tutto l’amore di cui è capace, senza smettere di guardarmi. Questo episodio disarmante mi riporta alla realtà e mi investe di amore. Non so e non saprò mai per quale motivo mi abbia sorriso in quel modo cosi intenso, quello che so è che la mia attrice preferita (memorabile la sua scena in farmacia nel film Magnolia) mi fa fare pace con il mondo, perdendomi per quegli interminabili secondi nei suoi occhi. Sentirmi amata e compresa da un angelo terreno con la pelle chiara e luminosa, mi dà una forza immensa, mi fa credere ancora una volta che tutto è possibile in questa vita e non smettere di sognare è quasi un dovere per me e per tutti quelli che credono in qualcosa. Qualunque essa sia. Applaudo diverse star internazionali presenti alla serata, tra cui Cate Blanchett e tanti altri, tutti hanno fatto bei discorsi compreso il direttore del festival Alberto Barbera. Sono pronta a tornare in albergo senza cadere in acqua, domani sarà una giornata impegnativa, non è questo il momento di fermarsi né di cadere. Mi addormento in pace e tutto mi appare ancora più bello in questo meraviglioso mix di Xanax e Julian Moore che mi dà la buonanotte. Il giorno dopo arrivano tutti in camera, registi, ufficio stampa e altri truccatori e parrucchieri. Anche tutto il cast del film Vera è a Venezia e mi sento un po’ meno sola. Bella, vaccinata, truccata e mentalmente lucida, mi avvio insieme al cast al Lido per fare delle interviste.
Le domande sono più o meno sempre le stesse, il mio sentirmi inadeguata nei confronti della bellezza di mio padre, la mia amicizia con Asia Argento, quanto c’è di vero nel film (tutto, è ispirato a me! E io sono Vera di nome e di fatto), come è stato interpretare me stessa, il mio rapporto con i registi e così via. Rispondo a tutti più che disponibile, faccio foto e gioco il gioco della star a Venezia con lo spirito di una bambina che dice all’amichetta “facciamo che tu eri la star al festival e io ti intervistavo” staccandomi un po’ dall’isteria che impone lo stare qui, una sacrale importanza verso ciò che dovrebbe essere preso con più leggerezza. Non stiamo salvando la fame nel mondo. Siamo dei privilegiati che hanno trasformato un sogno in realtà. Ci abbiamo creduto e siamo stati bravi ma questo non fa di noi né Ghandi né Madre Teresa di Calcutta né Che Guevara. Finalmente siamo pronti per la proiezione del film con tanto di tappeto rosso, questa volta facile, e un accogliente Barbera, che si complimenta con me e mi dice di aver voluto questo film a Venezia con tutto se stesso. Foto in pose strategiche per me e per tutto il cast e finalmente ci sediamo. Partono i titoli di testa. Il mio profilo dentro a una macchina con la canzone Dedicato di Loredana Bertè e la scritta “Vera Gemma”. Penso che questo è il mio primo film da protagonista. Fino a oggi nessuno mi aveva dato questa opportunità ma come me l’hanno data non mi sono risparmiata. Guardando il film capisco di essere stata molto sincera e di non aver cercato di dimostrare quanto fossi brava (errore tremendo da commettere persino se brava lo sei più di Meryl Streep) capisco di essermi liberata da me stessa pur interpretando me stessa. Il ché può sembrare una contraddizione ma non lo è. Non è vero, come pensano in molti, che fare se stessi sia facile, rischi infatti di riprodurre la migliore idea che hai di te, quella che vorresti trasmettere agli altri, non corrisponde quasi mai a quella vera, rischi di voler apparire un po' più brava, un po’ più carina invece di metterti a nudo e mollare tutte le difese possibili e immaginabili. Interpretare se stesse in modo sincero, significa accettarsi assolversi, perdonarsi e mettere a nudo la propria anima (che è più difficile che spogliarsi nude).
Mi godo il film provando a non giudicarmi e a non pensare che quella sono io e più va avanti, più penso che sia bello. Lo è soprattutto grazie ai miei registi che hanno saputo leggere e raccontare la parte più profonda, ingenua e pura di me. Tizza Covi ha passato più di anno a parlarmi e conoscermi prima di fare il film e mi ha raccontata come mi avrebbe raccontata mia madre. Con una profonda conoscenza. Non mi esalto, mi difendo, non lo faccio quasi mai per il mio lavoro, mantengo un distacco ed una lucidità che mi aiutano a dare il giusto valore alle cose. È sicuramente una forma di protezione. Come quando ti innamori ma non per questo sei disposta a buttarti da un ponte se le cose non dovessero andare come ti aspettavi. Alla fine del film gli applausi sono calorosi e lunghissimi. Non ho imparato ad accettarmi completamente e mi stupisco sempre quando le persone amano quello che faccio, sono felice ovvio, questi applausi arrivano dopo tanta gavetta, anni di teatro, cantine underground, piccoli ruoli poco gratificanti, reality show fatti perché avevo bisogno di soldi e di popolarità, spettacoli al circo e tanto altro. Lavoro da quando avevo sedici anni e una parte di me ancora non crede di essere qui. Mi alzo, saluto il pubblico, rispondo alle domande, le solite cose che si fanno dopo una proiezione di un film a un festival e per tutto il tempo continuo a dirmi: “Vai Vera! Vai avanti adesso!” Sento che il film ha una forza, la forza della verità. La forza della sofferenza che traspare dai miei occhi e che non vorrei guardare. È un film onesto, non vuole emozionare a tutti i costi e proprio per questo emoziona molto. Il giorno stesso e tutto il giorno dopo iniziano a uscire critiche a raffica “Vera è la rivelazione inaspettata del festival di Venezia” (perché sempre inaspettata?): “Essere Vera”, “Una Gemma preziosa”, “Vera racconta l’intera umanità”, “Ritratto straziante di una donna Vera”. Tutte critiche meravigliose che esaltano il film e il mio lavoro. Ma la vera grande emozione arriva a cena quando Isabel Coixet, una bravissima regista spagnola pluripremiata, nonché presidente di giuria della sezione “Orizzonti”, quella che riguarda noi appunto, si avvicina a me e mi dice: “Non dovrei dirtelo ma io credo che tu sia davvero speciale, il lavoro che hai fatto mi ha toccata profondamente e man mano che il film andava avanti mi hai straziato sempre di più il cuore. Mio padre non era un attore famoso, non era neanche un artista ma nonostante questo mi sono identificata in te totalmente, perché' quello che racconti e come lo racconti appartiene a tutti noi e va al di là della storia personale, tu sei universale e continua. Io ho lavorato con grandi attrici internazionali, vere star, ma tu hai qualcosa. credimi Vera!”
Dopodiché mi chiede: “Sono vere quelle scene del film in cui non vieni mai presa ai provini?” E io rispondo molto onestamente e senza vittimismo: “Sì, ho avuto tante porte in faccia, non mi prendevano mai ai provini, la mia vita artistica non è stata e non è facile nonostante io sia qui, forse non sono un personaggio semplice da capire, ho ricevuto molte umiliazioni e sono stata continuamente fraintesa per via del mio modo di essere”. Lei mi guarda e dice: “Da adesso in poi mai più”. Me lo dice convinta come raramente ho visto qualcuno credere con tutto se stesso in qualcosa, al punto da toccarmi il cuore l’anima, lo spirito, la psiche e tutto quello di cui sono composta. La ringrazio in quel momento e la ringrazio ancora oggi. Mi ha fatto credere di valere molto come artista e non mi ha permesso di dubitarne, mi ha parlato con franchezza, stima e si è esposta rischiando molto, perché' una presidente di giuria deve essere imparziale e non far trapelare nulla. È stato più forte di lei, doveva dirmelo. Oggi Isabel a distanza di più di un anno resta e resterà per sempre un’amica preziosa per me. Non ci frequentiamo molto, lei vive a Barcellona e io a Roma, ma quando è in Italia mi chiama e io ci sono sempre. Guai a chi me la tocca, sarei pronta a uccidere per lei. Perché mi ha detto adesso basta Vera è ora che tutti si rendano conto di quello che vali, ma soprattutto è ora che te ne renda conto tu. I miei registi assistono a questa scena e iperprotettivi come sono nei miei confronti mi dicono di non farmi illusioni per il film, che è stato meraviglioso quello che ha fatto ma non significa nulla. Che non per questo vinceremo un premio insomma. Hanno sempre paura che io rimanga male per qualcosa e questo è bello ma al di là di tutti i premi e i riconoscimenti del mondo, delle critiche, degli applausi, questo momento cambia la mia vita per sempre. Mi dà la coscienza certa di non essere sbagliata, di poter essere finalmente capita, magari non da tutti ma da chi si sforza di guardare oltre e in qualche modo mi somiglia. Mi fa assolvere dall’essere un’artista mio malgrado, perché io non ho deciso mai di essere così né di fare l’attrice o scrivere, ho usato qualunque cosa sentissi consona al mio bisogno di esprimere un tormento che avevo dentro. Artisti purtroppo si nasce e non è proprio una festa come si può immaginare, è un modo di vivere, sentire e patire, una scelta inevitabile di libertà assoluta, un essere nati diversi che si paga con le lacrime e con il sangue e ti lascia tante volte sola perché quasi nessuno ti capisce e ti sopporta.
È la coscienza profonda del fatto che tu non somiglierai quasi mai a chi ti sta accanto e non ci sarà una facile identificazione con gli altri, grandi amicizie, brindisi e sorrisi. Significa un disperato costante bisogno di migliorare il mondo di gridare il tuo dolore e trasformarlo in arte, significa non scappare dalla sofferenza ma renderla produttiva. Non avere mai rapporti normali vita rassicurante, mulini bianchi. Significa essere soli. Perennemente insoddisfatti. Avere sempre bisogno di adrenalina come fosse benzina per il tuo corpo. Significa non accontentarsi mai e non godere mai del successo fino in fondo. Significa essere odiati, criticati, scomodi e incompresi e proseguire comunque la lotta. E significa avere tantissimo coraggio e non poter mai scappare da se stessi. Significa fare i conti con la propria felice infelicità, passare da gioie senza limite a un lucido desiderio di morire e significa offrire agli altri tutto quello che vorresti tu ma che quasi nessuno è in grado di darti. Significa essere generosi, darsi come puttane e nello stesso tempo rifugiarsi e nascondersi, significa mettersi a piangere mentre scrivi, sentirsi svuotati e desiderare perennemente un amore che senti di non meritare. Significa avere l’ossessione di lasciare il segno, restare nella storia, un disperato desiderio di immortalità perché in fondo la vita ti piace così tanto da non volerla lasciare mai e versi lacrime al punto da non voler essere dimenticato nemmeno dopo la morte. Significa lottare per restare per sempre nel cuore di qualcuno e vivere una costante paura dell’abbandono. Significa una magnifica illusione di cui sei dipendente come fosse droga. Un’eterna bugia fondata su una verità sanguinante, un cuore che pulsa troppo con cui devi fare i conti in ogni singolo istante della tua fottuta vita meravigliosa, del cazzo. Qui a Venezia ho il sospetto che la cosa più pura sia l’acqua del canale dove pisciano i topi. Per fortuna la giuria di Orizzonti è tutta composta da registi produttori e attori internazionali. Se fossero italiani a me non darebbero nemmeno il telegatto (premio anni Ottanta per altro prestigioso, ideato da Berlusconi credo, ne ho uno in casa, mio padre l’ha vinto). Insomma non mi darebbero neanche uno di quegli ossi che vengono lanciati al cane all’ora di pranzo per farlo stare buono, così non chiede da mangiare. Già non si spiegano come io sia passata in meno di un anno dall’Isola dei famosi a un film da protagonista austriaco in concorso a Venezia, distruggendo tutti i luoghi comuni per cui se un’attrice fa televisione poi ha chiuso con il cinema, come quello secondo cui se non sfondi entro una certa età non ce la farai mai più. Sospettano che ci sia stato un errore di valutazione o uno scambio di persona o che io abbia corrotto Barbieri, il presidente del festival, magari ballando la lap dance come facevo a Los Angeles o che abbia regalato la Sella d'Argento di mio padre all’ambasciatore italiano a Vienna. Quando si tratta di me, non tornano mai i conti. Esclusa la possibilità che io possa essere una brava attrice. Troppo schietta, sincera e senza paura, troppo pazza con quel cappello da cowboy, spavalda sicura di se, vestita sexy, per essere brava.
Un’attrice brava deve prendersi sempre sul serio, essere nevrotica tormentata, balbettare e fare pause infinite durante le interviste, deve fingere di essere un intellettuale anche se il primo libro lo ha letto a trent’anni (io a nove, in quarta elementare, avevo già letto e amato La noia e Gli indiffernti di Alberto Moravia). Deve odiare la televisione, i bei vestiti e i gioielli, deve anche far finta di odiare la sensualità e il sesso (per poi darla al regista di turno magistralmente e di nascosto). In realtà io sono qui mio malgrado. Sono qui a Venezia per avere l’imperdonabile colpa di aver fatto un bel film dove l’Italia, Rai cinema, la politica, il mandolino la tarantella e il magna magna non c’entrano niente. Quindi l’atteggiamento è un po’ “ignoriamola, facciamo finta di niente, tanto questo film sulla sua vita sarà talmente una cagata che passerà inosservato”. E si accorgono di questa energia che ruota intorno a me anche Tizza e Rainer, che non riescono a spiegarsi il perché gli addetti ai lavori siano così prevenuti nei miei confronti. Torno a Roma comunque soddisfatta e al di là di questo atteggiamento generale, ringrazio tutta la critica e i giornalisti che hanno speso belle parole per me e per il film. Parole commoventi capendone e apprezzandone l’essenza più profonda. La critica mi ha sempre capita da quando facevo teatro e mia madre conservava tutte le belle recensioni che uscivano su di me, ma purtroppo questo è secondario in Italia. Non abbiamo avuto neanche una recensione negativa con questo film e a distanza di tempo, dopo essere stati esaltati anche dalla critica internazionale, da Le Monde in Francia fino al New York Times in America siamo molto riconoscenti a chi ha capito il nostro lavoro. Mai dare per scontato l’essere capiti in questa vita. Una volta a Roma, senza rimpianti decido di dimenticare il festival del cinema di Venezia così come si è costretti a dimenticare un amore che ti ha dato tante emozioni ma ha deciso di rinchiudersi in un monastero in Tibet e chiudere con la sua vita passata. Vedo su internet che Vanity Fair ha dato al mio abito nero un sei e mezzo e ha scritto, testuali parole, “ma lo sai che è stata bravona!”( complimenti per la scelta della terminologia dei maître a penser che scrivono sul giornale e passano i pomeriggi a dare i voti a queste cazzate). Non voglio più pensarci.
Sebbene mi venga in mente quando da piccola chiudevo gli occhi e per rasserenarmi e dormire pensavo di vincere un premio. Mi creavo nella mente tutta la situazione perfetta il momento in cui salivo sul palco l’emozione, i ringraziamenti. È passato qualche giorno e Venezia è quasi dimenticata. Vado a comprarmi una sigaretta elettronica perché' nel frattempo ho smesso di fumare le sigarette tradizionali. Ho fatto un voto. In cambio voglio un potere di parola. Smetto di fumare ma voglio che la mia voce sia ascoltata. Suona il cellulare. È Tizza, è agitata. “Vera, ascoltami bene, dobbiamo tornare a Venezia. Ci hanno chiamato, non ci dicono perché' ma sia te che noi (lei e Rainer) dobbiamo tornare subito a Venezia”. E io: “Ma come non ci dicono perché?” E lei: “Sì, non te lo dicono mai, forse il film ha vinto qualcosa, non te lo so dire, forse no... so solo che dobbiamo tornare, ci tocca ripartire”. Mi ero appena riambientata. Torno a casa e chiedo a Gabriele Fiorucci un altro abito nero lungo e sinuoso e un tailleur giacca pantaloni nero un po’ maschile. Non so bene cosa dovrò fare ma Vanity Fair è in agguato. I vestiti rappresentano per me quello che era la pistola di Ringo per mio padre. Una difesa dal nemico. E Vanity Fair è il nemico. Loro non amano me ma io non amo loro. Tutto è reciproco nella vita. È quello che mi dicevo da adolescente quando mi innamoravo, se sono innamorata è perché anche lui mi ama e questa convinzione funzionava quasi sempre. Funziona quindi anche quando non ami qualcosa o qualcuno. Stai certa che nemmeno loro amano te. Questa volta a Venezia sono ospite del hotel Excelsior al Lido. L’Excelsior è l'albergo in assoluto più importante dove soggiornare a Venezia durante il festival. Qui ci sono solo le star (quasi tutte straniere) e i film più importanti da presentare al festival. Inizio a sospettare che il film abbia vinto qualcosa, altrimenti per quale motivo mi pagherebbero una stanza da mille e cinquecento euro a notte? Non sono così generosi da offrirti un weekend a cinque stelle. Tizza e Rainer mi chiedono di essere pronta alle 20:00 in punto per andare insieme alla serata di premiazione al palazzo del cinema. E di nuovo bussano i truccatori di Armani e i parrucchieri di Cotril pronti a riempirmi faccia e capelli di sponsor in gocce, spray compatti, luminosi e opachi, crema, liquidi, tutto quello che farebbe eccitare in un attimo chiunque scriva per Vanity Fair, come nemmeno Jenna Jameson (famosissima pornostar) saprebbe fare. Indosso l’abito lungo nero ma in un attimo ci ripenso. Me lo tolgo mi metto pantaloni e giacca nera da uomo e penso a mio padre che mi regalò questo cappello da cowboy che ho in mano. “Mettiti i capelli perché ti stanno bene” mi diceva e me ne regalava in continuazione. Mi amava con il cappello da cowboy, diceva che portavano fortuna e che io li sapevo indossare. Era riconoscente al genere western che gli aveva dato tanto e anche quando aveva iniziato a vincere premi come migliore attore passando a un genere meno commerciale, il Western non l’aveva mai rinnegato. Non si rinnega quello che ti libera dalla povertà. Mi metto in testa un cappello nero Stetson e decido che a questa serata di gala ci andrò così. Niente più abiti lunghi svolazzanti niente più sirene nere. Andrò a questa premiazione evocando mio padre con il cappello da cowboy che mi ha regalato. Ricordando Giuliano Gemma, che ha portato milioni di euro nelle tasche dei produttori italiani, famoso in tutto il mondo e negli ultimi anni della sua vita punito e messo in disparte per non aver mai intrallazzato, per essere rimasto un artista puro fuori da qualunque schieramento politico o arruffianamento di cui non aveva bisogno e che comunque non sarebbe mai stato capace di fare.
È un omaggio a mio padre e ci sarà anche lui stasera con me. Come va va, sarà lì a strizzarmi l’occhio, felice di come mi sono vestita. Inizia la serata, io, Tizza e Rainer siamo seduti vicini. A presentare è Rocío Muñoz Morales, attrice e moglie di Raul Bova, è molto bella ed elegante con il suo abito di Giorgio Armani (sponsor ufficiale), ma non è proprio una regina di simpatia. Mette una sacralità forzata nel parlare come se stesse facendo un discorso solenne a un funerale, con una drammaticità tutta spagnola che ricorda il concetto di amore e morte su cui si basa il flamenco. Non è mai sincera, spontanea non dico leggera per carità, non sia mai, ma insomma non è il discorso che annuncia l’entrata in guerra dell’Italia. Un po' meno importanza a tutto renderebbe la serata quello che è. Una bella premiazione. Ma lei ha deciso di recitare questi banali discorsi preparati come se salvassero un condannato a morte che era innocente. Noto in sala diversi registi italiani che conosco da anni, uno, famoso per essere un grande intellettuale di sinistra, ci provò con me quando avevo diciotto anni. Ebbi un flirt con lui che i sparì nel nulla una volta ottenuto da me ciò che voleva (non il mio cervello e nemmeno la mia anima). Fa finta di non vedermi e la cosa mi lascia del tutto indifferente. Non avevo nessuna voglia di salutarlo, ho il cuore in gola per la premiazione. La serata è già iniziata da un’ora sono salite sul palco Cate Blanchet, la “mia” Julian Moore e altri premiati illustri che abbiamo visto più volte sognando Hollywood. Perdonatemi ma scrivo questo articolo dopo un anno e mezzo di viaggi e festival in tutto il mondo e sono confusa riguardo a nomi e star. Ero convinta di aver conosciuto Oliver Stone a Venezia, invece era al Jerusalem Film Festival e francamente neanche mi va di soffermarmi sui nomi famosi perché per me i nomi non esistono, esistono soltanto gli esseri umani. Non me ne frega un cazzo di chi è famoso e chi no. Rosio annuncia il premio per la migliore regia nella sezione Orizzonti . Sale qualcuno sul palco a premiare. Premo per la migliore regia a... Tizza Covi e Rainer Frimmel per Vera. Oh mio Dio, urlo di gioia, i miei registi, che mi hanno amata, capita, sopportata e sostenuta. Hanno lottato per trovare i soldi per il film, ma soprattutto hanno lottato per farlo con me. Mi ringraziano dal palco per avergli dato l’ispirazione. Senza Vera non avremmo fatto questo film né vinto questo premio, dice Rainer. Tornano a sedere e li abbraccio commossa. Li amo e li amerò sempre. Capisco subito che eravamo là per quello, migliore regia, perché' è molto difficile che in una stessa sezione diano due premi allo stesso film ma sono comunque felice e più che soddisfatta. Passa circa un quarto d’ora. Nel frattempo io con la mente sono di nuovo nella mia villa sull’Appia.
Siamo in piena estate, mio padre gioca a tennis, in disparte lo osservo, mi fa una smorfia, gli sorrido intimidita, è giovane e bello e sono fiera di lui. Mi rendo perfettamente conto che essere piccoli è la cosa più bella del mondo e nessuno riuscirà mai a farmi diventare un’adulta. E arriva l’annuncio del premio per la migliore attrice. Il Leone d’oro per la migliore attrice di Venezia lo annuncia la presidente di giuria Isabel Coixet. Vedere sul palco quella donna mi rende felice. La vincitrice è... Vera Gemma per il film Vera. Oh mio Dio, mi passa tutta la vita davanti, tutto trova un senso. Gli amori sbagliati, il tempo perso, le porte in faccia, la mia ribellione adolescenziale. Mi metto le mani in faccia e piango. È tutto quello che riesco a fare. Percorro il tragitto dal mio posto a sedere al palco con le mani giunte come se stessi pregando e la prima cosa che dico al microfono è “Oh mio Dio”. Cercando di calmarmi. Dopodiché proseguo perché' debbo essere forte per forza e possibilmente non patetica. “Vorrei dire a chiunque possieda un sogno di non arrendersi e permettetemi di dedicare questo premio ai due uomini più importanti della mia vita: mio figlio Maximus e il mio bellissimo papà, Giuliano Gemma”. Applausi e sguardi stupefatti. Questo premio è per te papà, ti amo più della mia vita, ma è anche per chi non si è arreso, per chi non ha mai rinunciato a dire la verità a costo di fare e farsi male. Questo premio è per chiunque sia nato diverso. Perché essere diversi nella vita significa essere speciali ed è sempre e comunque un valore aggiunto anche se doloroso. Vanity Fair commenta tutto questo così: “Un abito da sera mai?” E mi da aimè un voto basso. Ma grazie a Dio non si misurano le vittorie a colpi di copertine glamour e magna magna nella vita, né a seconda di quanto intrallazzi o con chi ti fidanzi o quanto sei politically correct dipende dal talento dal non mollare mai e questa lezione è più importante di qualunque premio al mondo. È molto di più di quello che mi sarei mai aspettata mentre giravo questo film e stavo ore buttata per le strade di San Basilio perché' non avevamo roulotte né troupe né truccatori o costumisti. Non avevamo niente. A parte noi stessi. Abbiamo fatto questo film in quattro. Io, Tizza, Rainer e Ivan, l’aiuto regista. E ora mi ritrovo in mano uno dei premi più importanti a cui un’attrice possa ambire. Ce l’abbiamo fatta papà. E non grazie al cappello da cowboy che portava fortuna. Perché' la fortuna non esiste papà. Esistono i meriti, i sacrifici, il sudore e la professionalità. Esiste il coraggio di chi lotta per un mondo giusto, dove i buoni e i cattivi del cinema di genere non esistono e tutti fanno quello che fanno per un motivo. Esiste chi a costo di essere giudicato frainteso, incompreso, rimane se stesso e nonostante una vita di no, trova sempre la forza per rialzarsi. Esiste questo cazzo di leone d’oro meraviglioso. E me lo porto a casa a testa alta. Perché questa volta ho vinto io.