Sanremo 2024. Premetto, e non ho nessun pudore nell’affermarlo, che io da sempre ho il mito del Festival di Sanremo. Ricordo serate da adolescente, seduta sul divano con mio padre, mia madre e mia sorella Giuliana, tutti seriamente impegnati ad ascoltare le canzoni, commentare i look e le esibizioni. D’altronde la mia era una famiglia di artisti e qualunque esibizione andava studiata capita e analizzata, ma soprattutto alcune arrivavano al cuore e altre no. Tutti provavamo un sano e rassicurante amore disincantato per Pippo Baudo, a mio avviso conduttore mai battuto da nessun altro, mi dispiace per Amadeus ma tanto, come leggerete più avanti, non è lui ad avermi invitato a Sanremo ma Mara Vernier, quindi non vedo perché dovrei dire che è meglio di Pippo Baudo. Sognavo segretamente di essere una delle due bellissime donne che ogni anno lo accompagnavano nella conduzione, di scendere quella scalinata con un abito lungo e tacchi altissimi (io con i tacchi scendo le scale benissimo e non inciampo) e il pubblico dell’Ariston che mi osservava adorante e pieno di amore per me (in fondo il mio essere artista si basa quasi unicamente su un desiderio disperato di essere amata, assolta, compresa e a tratti invidiata). Ogni canzone vincitrice è legata a un ricordo. Si può dare di più di Enrico Ruggeri, Umberto Tozzi e Gianni Morandi (l'ordine è casuale) è legata al mio innamoramento per Umberto Tozzi per cui persi la testa al punto di trovare il suo numero di telefono e chiamarlo. Non ricordo bene cosa gli dissi, tentai di ottenere un appuntamento ma ero troppo piccola per lui, che mi congedò dicendomi: “Un saluto a tuo padre!” Anna Oxa che scende le scale divina cantando Ti lascerò con Fausto Leali mi insegnò molto sulla femminilità, l’eleganza e il modo in cui si deve camminare quando si vuole conquistare tutti, forti dell’indiscusso potere dell’essere donne. Giorgia che canta Come saprei mi ricorda un fidanzato di cui ero innamorata ma che decisi di lasciare perché era piuttosto difficile (psicopatico), a cui dissi la coraggiosa frase “Ti amo ma amo di più me stessa”. Potrei continuare all’infinito con i ricordi e le emozioni che molte delle canzoni di Sanremo, vincitrici e non, hanno lasciato in me. Ma veniamo al dunque. Mara Vernier mi lascia un vocale su WhatsApp. Ancora prima di ascoltarlo provoca già in me una certa emozione. In fondo Mara è Mara, non lascia nessuno indifferente. È la zia di tutti, l’eterna bellezza della domenica, la regina indiscussa del programma nazional popolare Domenica in dove chiunque va volentieri (e se qualcuno non ci va volentieri è un pessimo manager di se stesso perché quel programma è visto da tutti). Mara mi invita ad andare alla puntata di Domenica in speciale da Sanremo, dove si esibiscono tutti i cantanti in gara, la più vista di tutto l’anno e la più lunga, inizia alle due del pomeriggio e finisce alle otto di sera. Puntata che ho sempre seguito negli anni. Mi si blocca il cuore. Mi invita anche a vedere la finale di Sanremo in platea la sera prima. Questo per me è un sogno che si realizza, ho sempre voluto essere li e ascoltare le canzoni dal vivo, vivere l’emozione della classifica e applaudire i vincitori in diretta. Ovviamente accetto. Contatto il mio amico stilista Gabriele Fiorucci e gli chiedo un abito per la serata.
Inizio a guardare Sanremo dalla prima serata molto attentamente (l’avrei fatto comunque) cercando di confrontarmi con più artisti colleghi che mi dicono secchi: “Io non guardo Sanremo”. Nessuno guarda Sanremo intorno a me ma poi i risultati sono: più di dieci milioni spettatori. Perché solo io sembro non aver paura di ammettere che Sanremo è importante che è storia del costume della musica. Sanremo è l’Italia. Da Sanremo sono usciti grandissimi artisti come Vasco Rossi, tanto per dirne uno, ma esiste una certa goduria ed un vago snobismo nel dirmi in faccia Vera. Io non lo guardo. Beh, io sì, da trentasei anni circa. E ho già elaborato una mia classifica personale ancora prima di arrivare. I vincitori di Vera, appunto, che svelerò solo alla fine di questo articolo. Per andare a Sanremo si deve volare su Nizza. Il volo è stato un incubo. Pioveva e la turbolenza si è fatta sentire, ho temuto che non avrei saputo mai chi sarebbe salito sul quel podio ma grazie al cielo sono atterrata, con me c’era anche Lino Banfi, con cui, una volta in hotel, ho pranzato e condiviso dei bellissimi racconti sul cinema. Abbiamo parlato dei film italiani a episodi (sabato, domenica e venerdì, in particolare) e ho provato per lui un sincero e autentico affetto. Mi ha anche parlato di Fellini e dell’avanspettacolo e mi ha fatta sentire capita. Lino Banfi come molti artisti della sua generazione è umile e per bene, un uomo di altri tempi pieno di esperienze e ricordi che arricchiscono chi è capace di ascoltare. Mi ha anche raccontato che il militare per lui è stato uno dei periodi più belli della sua vita. Perché veniva dalla povertà e li si pranzava e si cenava, ma soprattutto aveva un suo ufficio dove gli permisero di organizzare spettacoli. Quello che lui amava e ha amato tutta la vita fare. Purtroppo ha perso da poco la sua amatissima moglie ma va comunque avanti perché nessuno meglio di chi ha fatto tanta gavetta sa che “the show must go on” e che un’artista deve vivere e morire da artista, perché non ha nessuna scelta se non quella di rispettare la passione e la diversità con cui è nato. Ricorderò sempre questo scambio con lui ed il viaggio insieme. Ma torniamo al Festival di Sanremo e alla sua musica. Qui è piuttosto frenetica la situazione, un’isteria di gente che viene e che va, molti addetti ai lavori e come in ogni festival che si rispetti molti intrusi in cerca di gloria, folle di fan che aspettano i cantanti fuori dagli alberghi, piove da tre giorni, il che rende tutto più complicato, ma nessuno rallenta e nessuno di arrende. Intravedo qua e là cantanti e presentatori televisivi, mi sento come sempre a tratti troppo figa a tratti fuori luogo ovunque. Se non altro non mi agito, anzi mi chiudo in camera perché non sono una che ci tiene ad attirare l’attenzione a ogni costo. D’altronde non canto. Sono qui per esprimere il mio parere su quelli che cantano e anche se al momento vorrei solo esprimermi su Ghali, che è davvero troppo sexy, stiloso e talentuoso, mi esprimerò ugualmente per chiunque riuscirà a toccare il mio cuore, ascoltando con attenzione ogni singola canzone, cosa che d’altronde faccio dagli anni Ottanta. Mi concentro sulla finale sebbene a questo punto le canzoni le so già a memoria. Quest’anno ce ne sono diverse interessanti e l’obbiettivo di Amadeus di avvicinare il pubblico giovane al festival mi sembra più che riuscito. La serata delle cover, a mio avviso la più bella in assoluto, la vince Geolier con Guè, Gigi d’Alessio e Luchè, tra un pubblico molto maleducato e non così musicalmente preparato che si permette di fischiare mentre Guè resta il re indiscusso del hip hop italiano, Luchè pura poesia cruda e Gigi d'Alessio un grande artista che ha fatto numeri da fare invidia pure alle banche. Forse meno facile per Geolier, che però mostra nei giorni successivi un atteggiamento umile e pacifico che lo rende ancora più vincente. Sono molto felice per questa vittoria venerdì sera, sebbene anche Ghali meritasse il podio, cantando prima in arabo e poi in italiano la canzone più italiana di tutte, L’italiano di Toto Cutugno. Ghali porta in pochi minuti sul palco dell’’Ariston il concetto di multietnicità. Con questa mossa vincente ci rivela come la società plurale sia un valore aggiunto nel nostro Paese e nella nostra musica e andrebbe nutrita e valorizzata. Qualunque differenza dovrebbe significare scambio e arricchimento e non dovrebbe essere discriminata. Se poi a valorizzare questi concetti profondi e giusti è un ragazzo bello come lui con una voce intensa e un cuore profondo e sincero, il messaggio dovrebbe arrivare ancora meglio. Anche se esisteranno sempre i sordi, ma queste sono polemiche che in questo viaggio sentimentale nella musica non approfondirò.
Avrete capito che la canzone di Ghali Casa mia è indiscutibilmente tra le mie preferite. Esalta il valore dell’uguaglianza e racconta come non dovrebbero esserci confini nella terra perché il mondo se lo guardi dall’alto, non ha limiti di demarcazione. E Ghali lo racconta con un talento che molti di noi conoscono da anni ma che era ora conoscesse tutta l’Italia. Mentre lo guardo uscire in tutta la sua eleganza rifletto su quanto abbia sempre avuto un debole per Tunisia e Marocco. Poi entra Gigliola Cinquetti e canta Non ho l’età. Indossa un abito nero semplice alla Edith Piaf e fa la sua elegante figura. Il pubblico dell’Ariston esulta. Questi classici non hanno età, appunto. Sono canzoni che appartengono a tutti noi senza tempo e vanno al di là delle mode e dei gusti personali, sebbene quel gran figo di Mahmood e la sua Tuta gold mi esaltino di più. Le canzoni quest’anno sono molto belle. La mia emozione nel sentirle dal vivo è totale, ospite a Domenica in inoltre, posso anzi debbo intervenire e vedo tutto dal palco e sul palco, il che mi fa sentire il miglior giudice di X Factor o di The voice, sensazione che aumenta la mia autostima e mi fa sentire bene. Ed è proprio di questo che discuto di fronte a tutta Italia: di autostima. E voglio farlo con uno dei miei miti di sempre: Loredana Bertè. La regina assoluta, la rock star numero uno italiana per eccellenza, non solo per le meravigliose canzoni che restano nella storia della musica italiana, per i magnifici look (lei la moda “non la segue, la fa”), ma perché essere rock è una scelta di vita, un modo di porsi e di pensare, una libertà di espressione e di ideali che ti innalza a paladina di tutte le verità, anche le più scomode e dolorose, quelle più impopolari e difficili da assumere. Per essere rockstar come Loredana si paga un prezzo alto nella vita (I know what does it means to be fucking rock and roll baby). Non è un concetto superficiale che si limita all’apparenza, bensì l’essenza stessa che esprimi sul palco e nella vita e fa venire i brividi a chi ti conosce e ti ascolta. Loredana è un’artista vera, è il trionfo dell’onestà, dichiaratamente selvaggia, sacra, profana intensa e bellissima. Loredana è quel coraggio che tutti vorrebbero avere ma che pochi hanno. Mai titolo fu più appropriato di Sei bellissima, perché poche donne sono belle come lei, dentro e fuori. Basti pensare che il mio film Vera ha nei titoli di testa la sua voce unica e inconfondibile che canta Dedicato. La regista Tizza Covi era d’accordissimo sul fatto che quella doveva essere la canzone del film e nessun’altra. I diritti sono costati tantissimo ma abbiamo preferito rinunciare a molto altro e sacrificare cose a nostro avviso meno importanti pur di poterla usare. Un testo meraviglioso che parla di Loredana, di me e di tante altre donne. Loredana in diretta mi dice che è questa ricerca, questo lavoro che facciamo, nel superare la severità che nutriamo verso noi stesse che ci contraddistingue. Io le rispondo che la amo (mai stata più sincera nel dichiarare il mio amore a qualcuno), è stata grande. La vincitrice morale assoluta di questo Sanremo è lei. “Sono pazza di me perché mi sono odiata abbastanza” è la frase più forte di tutti i testi di quest’anno nella sua semplicità, una coltellata secca e decisa al cuore.
Dopo essermi confrontata con lei aspetto Mahmood perché io ho già deciso con chi voglio parlare durante questa diretta non potendo ovviamente parlare con tutti, perché ci sono altri opinionisti e giornalisti ferrati che meritano di parlare più di me. Ma con Mahmood ci parlo io. Penso che Mahmood sia incredibile, riesce a fare pezzi orecchiabili, di impatto immediato (li impari a memoria al secondo ascolto) mantenendo un’assoluta raffinatezza musicale. Essere per tutti e per pochi nello stesso tempo non è proprio facile. In passato ci sono riuscite le più grandi pop star della storia (da David Bowie a Michael Jackson) e Mahmood pur essendo molto giovane ha un senso raro di quello che è l’eleganza musicale. Inoltre ha una voce assolutamente unica che non somiglia a nessun’altra. Dietro le quinte una responsabile della Sony urla e sbraita perché sembra che alcuni degli artisti convocati non si siano esibiti. La puntata era troppo lunga si è parlato tanto e i tempi sono quello che sono. Ogni tanto ci si ficca in bocca un panino dal buffet della vip room, dopodiché si ricomincia. Tra le diverse esibizioni mi resta impresso Dargen D’Amico perché sembra essere un artista che crede in quello che fa e non mira alla facile approvazione del pubblico. È sottile, profondo e onesto nel suo modo stravagante di porsi e a me piace molto la sua canzone, Onda alta, la trovo davvero bella (“bambino stavolta hai fatto un bel casino”; ma è un casino bello e costruttivo che parla di talento). Applaudo con ammirazione. I tecnici si precipitano a portare sul palco un pianoforte a coda. Si esibisce Riccardo Cocciante e tutto il resto per un attimo scompare. Che dire, la classe non è acqua e i grandi sono grandi da sempre e per sempre. Ascoltando Bella senz’anima mi commuovo. Voglio un uomo che mi gridi con rabbia “e adesso spogliati come sai fare tu, ma non illuderti io non ci casco più”. Ma in genere più che aggredirmi si spaventano. La serata volge al termine, non vorrei mai lasciare l’Ariston, quel profumo di fiori e di Sanremo, di musica italiana e di sogni, quel pubblico caloroso che canta, quella scenografia è quelle luci meravigliose. Ringrazio ufficialmente (e non sono una ruffiana, zero) Mara Vernier per avermi fatto vivere un sogno dandomi fiducia e per essere la donna strafica che è. Il suo approccio ironico con i cantanti e quel suo modo così vero e dichiarato di porsi, sono un esempio di autoironia, talento e intelligenza. Un autista mi aspetta per riportarmi a casa, ceno in hotel insieme a Enrica Bonaccorti. Forse ispirate dalla musica parliamo di uomini, di fidanzati di quanto non cè ne sia mai fregato nulla di quanti soldi avessero e del fatto che ci siamo sempre sentite in dovere di aiutare gli altri, anche chi non se lo meritava. Enrica è una donna speciale e bella, una madre meravigliosa e molto simpatica, ci facciamo un sacco di risate e ci confessiamo la nostra segreta passione in comune per molti programmi televisivi di Realtime. In qualche modo ci somigliano. Le mostro una foto del mio primo marito Jamil (poi ne ho sposato pure un altro a Las Vegas) un ragazzo franco-marocchino bellissimo, a proposito di multietnicità, e lei risponde ironica: vuoi la guerra? E mi sbatte in faccia una foto del suo storico fidanzato altrettanto bello e sexy. Insomma siamo donne che non si sono fatte mancare niente nella vita ma abbiamo pagato e paghiamo la nostra indipendenza e il coraggio di essere esattamente ciò che siamo. Persone sincere, coraggiose, che si giocano la vita con le proprie forze e a volte vincono altre perdono, come le canzoni di Sanremo, ma restano oneste anche negli sbagli e vivono tutto fino in fondo con passione e quando serve con professionalità. Torno in camera. Attaccata al muro della mia stanza una foto di un giovanissimo Gianni Morandi (sebbene Gianni Morandi sia giovane in eterno). Do la buonanotte a tutto e a tutti abituandomi all’idea di salutare Sanremo. E prima di dormire elaboro un’ultima volta la mia classifica personale. Il mio podio. Terzo posto Mammhood. Secondo Geolier. Primo Ghali. E mi dispiace se non è un podio tutto femminile, ma di fronte all’arte e alla musica non dovrebbero esistere sesso né confini né razze né religioni. Ma quale casa mia ma quale casa tua... C’è un’unica casa ed è quella dove riusciamo a emozionarci e a recepire un messaggio che ci rende migliori. Buonanotte ai ricordi a Morandi, Ruggeri e Tozzi che cantano “si può dare di più” a me bambina seduta sul divano, a mio padre, bello e serio, a mia madre che mi dice di stare composta. Buonanotte a Gué che canta da brividi, a Gigi D’Alessio e Geolier e a tutte le cover del nostro cuore, buonanotte a chiunque abbia scritto una canzone che ha toccato l’anima ma anche a chi l’ha scritta e l’ha messa in un cassetto. Buonanotte a questa vita meravigliosa e difficile, ai sogni alle ambizioni, alla mia solitudine e a tutte le colonne sonore della mia esistenza. Buonanotte agli infelici di professione e a chiunque attraverso la musica abbia deciso di non arrendersi o anche di piangere perché piangere fa bene ogni tanto. È stato bello anche se è durato poco. Ma chi se ne frega del tempo. Ho imparato da questa esperienza che il tempo fugge veloce, che le storie di vita sono tante e tutte intense e degne di essere raccontate, la differenza forse sta proprio nel saperle ricordare. Mi viene un ultimo pensiero dopo dieci gocce di Xanax. Sforzatevi di ricordare tutto, sforzatevi di ricordare sempre. Perché quello che si dimentica, torna a volare nel tempo. E non esiste più.