Perdibile Sanremo. Nessun momento spettacolare può infatti dirsi pienamente straordinario, unico, imperdibile, in dovere d’essere tramandato nel ricordo, pienamente luminoso, in assenza dell’improvvisa irruzione dell’imprevisto. Di più, dell’Osceno. Questo principio che vale per tutto, ancora di più per un festival che si pretenda assoluto, nazional-corale, come Sanremo. Fosse anche uno stativo, una cantinella, un moschettone che d’improvviso precipitano per terra portando sulla scena un suono non contemplato. Un “rumore” appunto imprevisto, “nemico”. Il corpo di un suono estraneo che interrompa anche per un solo istante il rito ordinario, frantumando la prevedibilità d’ogni “scaletta”, solitamente compilata da autori giunti nella città dei fiori dall’ufficio collocamento del luogo comune ritenuto impropriamente di interesse nazional-popolare, plebiscitario. Stronzate. Cosa sia l’Osceno lo ha spiegato in modo chiaro e pertinente Carmelo Bene. Si tratta di ciò che appare subito fuori dal perimetro del previsto, preordinato, presidiato: un l’Estraneo, ciò che nessuno si era preoccupato di invitare. Fosse anche una scorreggia offerta dal caso gastrointestinale. Tra gli esempi da antologia: le immagini di Charles Bukowski ospite, nel 1978, della trasmissione letteraria "Apostrophes" di Bernard Pivot, in Francia. Il poeta, ubriaco, è costretto a lasciare lo studio, l’inquadratura imprevista lo mostra barcollante fuori campo, sfuocato, eppure il fuoco vivo dell’intera scena resta in lui. E ancora, sempre in Francia, Serge Gainsbourg pronto a dichiarare sfrontatamente interesse sessuale per Whitney Houston; il conduttore cerca di smussare, suda freddo, ma Gainsbourg, implacabile, ribadisce: “No, no, io voglio proprio fotterla”. Nuovi sudori gelati del presentatore, e Gainsbourg eccolo pronto a precisare: “Ovviamente non qui in studio, ma più tardi in albergo”. Nulla di osceno, dunque esempio tracciabile di splendore, si è invece visto nelle giornate sanremesi, se non la percezione di un timore indotto, la sensazione che ogni parola politica di troppo, perfino la più ordinaria, potesse indispettire occhi e orecchie del funzionario di controllo, mandatario dell’attuale governo di destra-destra; impensierire Giorgia Meloni e i suoi famigli, il suo minculpop pronto ad affacciarsi anche davanti l’astanteria canora, festivaliera. Alla fine la scaletta presentata dal mite Agnus Dei Amadeus contemplava nient’altro che dettagli addomesticati, pettinati, fonati; piena libertà invece di commentare il risibile ordinario: l’abbigliamento, il “look”, l’“outfit” degli “artisti”, tre parole che pronunciate in successione demoliscono ogni sentore d’intelligenza…
Non restava allora che rilevare le suggestioni suggerite dal cappotto indossato da Tananai durante l’esibizione: e lo si sarebbe detto rubato a un soldato dell’Armir di ritorno dalla ritirata di Russia, sapore di centomila gavette di ghiaccio o del sergente nella neve. Anche gli altri “artisti”, i loro corpi apparivano trasfigurati in stand di questo o di quell’altro brand, cose da suggerire nostalgia per il tempo degli smoking presi in affitto in occasione del matrimonio di nostro cognato. Insignificanti anche i cazzi alati ectoplasmatici proiettati alle spalle di Rosa Chemical durante la sua esibizione, davvero pietoso che possano aver suscitato raccapriccio moralistico portatile nel pubblico a casa. Quei cazzi alati da abecedario di classe materna appaiono ben poca cosa - perdonate se mobilitiamo il nostro sapere artistico proprio in tema di cazzi, in quest’altro caso davvero sublimi – agli stupefacenti cazzi che brillano nei graffiti realizzati da Keith Haring al secondo piano del centro comunitario lgbt di Manhattan, nel bagno degli uomini, un “affresco” che si solleva, fino a ricoprirla quasi per intero, sull’intera superficie non piastrellata del locale. “Once upon a time”, il titolo. Una rappresentazione di organi sessuali maschili in bianco e nero realizzato nel 1989, un anno prima che Haring morisse di aids. “L’opera rappresenta una celebrazione della sessualità e della resilienza degli uomini omosessuali in un momento in cui l’America era terrorizzata dalla sessualità maschile gay. Chiuso per anni, nel 2012 il centro ha restaurato l’affresco aprendolo alle visite del pubblico”, annuncia Robert Woodworth, uno dei protagonisti storici della comunità lgbt newyorkese. Oh, cazzi non meno alati e anelanti, pronti a consegnare allo sguardo fiotti di sperma e il disegno delle vene tra glande e prepuzio, altro che quelli di Rosa Chemical! Il corrispettivo della Cappella Sistina nell’immaginario suprematistico gay. Risibile anche lo sdegno per il “Ballo del qua qua” cui si è stoicamente sottoposto John Travolta: se le metafore valgono ancora, la sua performance mostrava qualcosa di assoluto anche sul piano dell’ironia, poco importa se soltanto involontaria: in linea di successione Tony Manero, il ballo con Uma Thurman in “Pulp fiction” e via degradando verso, appunto, un ballo da Cral dei pensionati Cisl, lo stesso che personalmente la prima volta vedemmo ballare a un gruppo di anziani francesi in vacanza all’Hotel Zagarella di Palermo, lo stesso luogo dove Letizia Battaglia ebbe modo di fotografare Giulio Andreotti in compagnia dei cugini Salvo, e ancora altrettanto location dove nacque il Gruppo 63, cioè la neo avanguardia italiana di Eco, Sanguineti, Arbasino, Balestrini...
Sia allora benedetto il “Ballo del qua qua”. E sia benedetto anche Al Bano Carrisi, e con lui Romina Power, sua ex consorte, lei che intonò il ballo per la prima volta qui da noi in Italia, fino a metterlo su disco. E ancora nostalgia del disoccupato che d’improvviso, affermando così l’esistenza dell’Osceno, sia pronto a minacciare di buttarsi giù dalla galleria, e viene prontamente abbracciato salvificamente da Pippo Baudo, nostalgia di Mario Appignani-Cavallo Pazzo che a sua volta irrompe annunciando che il festival sarebbe stato vinto da Fausto Leali, cosa che poi non avvenne, nostalgia di quello che avrebbe dovuto essere il vero vincitore morale, sia pure evocato, della rassegna di quest’anno, il suo nome non è certo Angelina, semmai Trattore. A seguire una breve rassegna di miei tweet personali che hanno punteggiato il mio sguardo distratto su Sanremo: “Il fatto che cantare "Bella ciao" grazie al mio amico e compagno Enrico Lucci provochi imbarazzo ad alcuni in sala stampa è la cartina di tornasole che i fascisti della Meloni sono davvero tali. Ora e sempre Resistenza!” E ancora: “Solo gli sciocchi ritengono che guardare il Festival di Sanremo sia un obbligo morale così come battezzare i figli”. Per l’intera durata del festival ho sperato che d’improvviso, come in un quadro del Beato Angelico, potesse manifestarsi dal nulla proprio Pippo Baudo: in pigiama o direttamente in slip, quasi nudo, come chi si trovi in corridoio nottetempo e stia cercando la porta del bagno più vicino per orinare, il suo arrivo avrebbe rappresentato davvero un’apoteosi spettacolare.