1984, gara 1 delle NBA Finals. I Lakers di Magic Johnson (Quincy Isaiah), Kareem Abdul-Jabbar (Solomon Hughes) e Pat Riley (Adrien Brody) vincono sul campo dei Boston Celtics, la squadra dei bianchi e dei vecchi. Il passato incarnato in coach Red Auerbach (Michael Chiklis), la nemesi della squadra di L.A. La resa dei conti definitiva tra due idee del mondo: il sole della città degli angeli e della magia di Johnson contro la stabilità e la costanza dei verdi di Boston e Larry Bird. Come la prima stagione iniziava nel futuro, con la diagnosi di HIV a Magic, anche la seconda di Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers comincia dall’epilogo. Dopo questa parentesi di apertura, il primo episodio, andato in onda su Sky lunedì 28 agosto (disponibile on demand e in streaming su Now Tv), ritorna al presente della prima stagione, il 1980. I Lakers sono appena diventati campioni Nba (la questione sulla validità del titolo di “World Champions” al tempo non si poneva…) e progettano la costruzione di un futuro altrettanto vincente. L’inizio di una dinastia, appunto. La voglia dei protagonisti di dimostrare che la vittoria dell’anno prima non è stata solo questione di fortuna è tanta: vediamo i due allenatori, Riley e Paul Westhead (Jason Segel), leggere quotidiani che dubitano del loro talento come strateghi del gioco. Il secondo, in particolare, è passato da professore di lettere a vice-allenatore a head coach nel giro di pochissimo tempo. Ha appena vinto l’anello citando l’Enrico IV di Shakespeare nell’intervallo. I risultati legittimano qualsiasi metodo, certo, a patto di rimanere sulla vetta. Magic e compagni già pregustano i vari modi in cui possono fare il culo agli avversari delle prossime Finals. L’obiettivo, come già detto, è “strappare il cuore” della franchigia di Boston. Un sogno più simile a un’ossessione. L’inizio della stagione non va, però, come previsto. L’agonismo dilagante suscitato dalla rivalità Kareem-Magic rende complicato qualsiasi progetto di squadra. In fondo, i Lakers avevano trionfato anche senza Kareem, infortunatosi in gara 5. Perché non fare a meno del vecchio capo, dunque, lasciando spazio al nuovo che avanza, con il suo sorriso impeccabile e i passaggi dietro la schiena. La rivoluzione è adesso. O almeno così pensa Magic. Non sa che avrà ancora bisogno del compagno… Eppure, l’abbagliante luce di L.A. sembra offuscare la vista al giovane playmaker del Michigan. Come gestirà la “sua” squadra? Come si comporterà da padre (non riconoscere il figlio non è un buon inizio)? La vita fuori dal campo lo lascerà indenne? Il crack del suo ginocchio nel bel mezzo della stagione risponde implacabile: quest’anno difendere il titolo sarà un’impresa disperata.
Rappresentare un’icona culturale, la luccicante immagine di un’epoca è sempre un’opera rischiosa: fare troppo o troppo poco sono due errori facili da compiere. Essere all’altezza di un monumento sportivo lascia spesso strada all’esagerazione. Talvolta, invece, l’asticella è troppo bassa, come per Air – Il grande salto di Ben Affleck, in cui i miliardari della Nike sembravano dei volontari dell’oratorio in cerca del 5x1000. La serie targata HBO ideata e prodotta da Adam McKay, già regista di The Big Short e Don’t Look Up e produttore di Succession (protagonista degli Emmy 2023), ha il merito di rappresentare la “verità”: negli affari sopravvivono solo i più forti. Tradotto: sono tutti degli stronzi. La prima stagione si reggeva, oltre che sulla bianchezza dei denti di Magic e sulle incazzature di Jerry West (Jason Clarke) intermezzate dalla goliardia del Dr. Buss (John C. Reilly), sulla freschezza dei dialoghi e le risposte incalzanti dei vari interlocutori. I collage di immagini degli anni ’70 avevano lo scopo di contornare un’opera al cui centro ci sono i personaggi reali. E, soprattutto, i loro ego smisurati. Tutti hanno sempre da ridire. Tutti cercano una seconda chance, convinti di meritarsela. Tutti pensano di valere tantissimo. Forse troppo. La seconda stagione della serie è appena cominciata e ogni lunedì ne vedremo un ulteriore tassello. La conclusione annunciata è il 1984, il tragitto ancora incerto. Vedremo eroi alla riscossa o teneri agnellini dubbiosi di sé stessi? Una cosa è certa: Los Angeles e le sue feste non mancheranno. Speriamo solo che i protagonisti si ricordino chi sono: leggende di un basket che fu e non solo trash-talker ben vestiti.