Una volta si chiamava “roba usata” e andava tenuta nascosta. Se pescavi qualcosa a un mercatino dell’usato, il primo consiglio non scritto era: negare tutto. A chiunque ti chiedesse da dove arrivava quella giacca, meglio rispondere con un vago “un negozietto a Londra”. Meglio ancora se citavi Camden Town. E comunque, anche in quel caso, la signora Rossi-Fumagalli del quarto piano ti avrebbe guardato come se fossi un eccentrico da compatire. Oggi? Si compra ai mercatini dell’usato, nei mercati rionali, si usano le app come Vinted che, tra l’altro, negli scorsi mesi ha aperto un pop-up store a Londra. Il concetto di “straccio rimesso in commercio” non solo ha perso lo stigma, ma ha guadagnato fascino, valore, senso. Il vintage non è più solo una scelta stilistica: è diventato un gesto culturale, un posizionamento, una dichiarazione di "senza un euro si, ma sciatto no." Giusto. Siamo diventati tutti un po’ più poveri, questo è evidente.
Siamo nella stessa barca, e la barca fa acqua da tutte le parti: mutui, affitti da incubo, precarietà, inflazione. Nel mezzo di questo naufragio collettivo, abbiamo iniziato a guardare al guardaroba con occhi nuovi. Ci siamo detti che forse forse no, non ha senso spendere 89 euro per un cappotto fatto di plastica (ben) pressata.E che sì, una camicetta in seta degli anni ’90 trovata a Quarto Oggiaro può avere più personalità di tutta la nuova collezione di qualsiasi fast fashion. Quindi possiamo dichiarare ad alta voce che la seconda mano funziona? Eh si. Ti permette di spendere meno, inquinare meno, distinguerti di più. E ti offre l’illusione, a volte pure fondata, di stare facendo qualcosa di giusto ed eticamente corretto. Pazzesco.

Pro
Costa meno
Non sempre, ma spesso sì. E anche quando costa, ha senso: i materiali reggono, la fattura pure. Un blazer degli anni ‘80 batte qualsiasi imitazione moderna.
È unico
I capi vintage non si ripetono. Non troverai qualcun altro con lo stesso vestito al matrimonio, alla cena, al colloquio.
Fa bene (davvero) al pianeta
Zero nuove produzioni. Nessuna spedizione globale. Nessuna fabbrica con standard opachi. È la sostenibilità, quella seria, quella cazzuta, quella che mi ha un senso.
Ti rende interessante
Dire “l’ho preso in un mercatino in periferia” è una nuova dichiarazione d’identità. Ti posiziona subito: una creatura selvatica che vive fuori dai branchi che comprano tutto tra le offerte primaverili tra Amazon e Zalando.
Puoi rivendere
Non è un acquisto a fondo perduto. Il seconda mano è un’economia circolare: compra, indossa, rivendi, rigira.
È una storia
Ogni capo ha un vissuto. Anche se non lo conosci, puoi inventarlo. Anzi, meglio così.

Contro
Non è sempre economico
Il vintage è diventato cool. E quindi, come tutto ciò che diventa cool, ha subìto l’inflazione dell’hype. Alcuni pezzi costano più del nuovo.
Le taglie sono una roulette russa
O ti va o non ti va. Fine. Nessuna alternativa. E spesso mancano etichette, misure, riferimenti.
Serve pazienza
Non è per pigri. Va cercato, scovato, confrontato. Non è una scrollata di 5 minuti: è un’avventura (spesso non richiesta).
Rischi la fregatura
Non tutto quello che ti vendono come “seconda mano” lo è davvero. E non tutto ciò che è vintage ha valore. Serve occhio. E fiuto. Tanto, fiuto.

In sintesi, la moda seconda mano è diventata più di una moda. È una forma di ribellione collettiva. I filosofi sostengono che sia una piccola vendetta sociale contro un sistema che ci ha fatto credere che solo il nuovo ha valore. Non me la sento di volare così alto, per quanto in parte concorde. Ma una cosa è certa: se per anni abbiamo snobbato i capi usati, oggi li cerchiamo con fame. Perché ci parlano di un tempo in cui le cose si facevano meglio. E perché ci fanno credere, anche solo per un momento, che possiamo ancora scegliere chi essere, partendo da cosa indossiamo.
