C’è stata un’epoca, piuttosto recente, in cui era il soft boy a dominare la scena. Zigomi affilati, baffetti da adolescente, braccia sottili infilate nei cardigan over, collane di perle Harry Styles-coded. Il fascino della fragilità e della gentilezza, un po' come i protagonisti degli shōjo giapponesi, con le loro ciglia languide e le rose rosse nascoste nel doppiopetto. I nuovi anni '20 sono stati il dominio dello sguardo intenso e un po’ perso di Timothée Chalamet e dei suoi cloni, orde di e-boys in baggy jeans e tirabaci, pronti a condividere il guardaroba con la propria dolce metà. Eppure, improvvisamente, tutto questo non sta più funzionando: il mercato delle tendenze, si sa, ha il ciclo vitale di una falena.

Machoman in boxer
Primavera 2025: entra in scena Bad Bunny, machoman in boxer Calvin Klein, muscoli contratti, corpo che parla una lingua universale. E il risultato, dopo la famigerata campagna da miliardi di views, è un boom in borsa per la società madre: +16% solo nel trading after-hour del 31 marzo. Il messaggio è lampante, la carne vende e il testosterone ingrassa i conti. E chi pensa che il marchio di intimo più famoso al mondo stesse facendo un salto nel vuoto, azzardando un'estetica che a primo impatto ci può sembrare obsoleta e sorpassata, si sbaglia di grosso. Ma la vera misura dell’impatto della campagna si trova fuori dai grafici di Wall Street, e ad oggi si calcola con la viralità. Su TikTok, Instagram e X c'è pieno di donne che riguardano compulsivamente la pubblicità di Calvin Klein, occhi incollati allo schermo mentre Bad Bunny flette i muscoli e gioca con il bordo dell’elastico. “Perché questo video dura 15 ore?”, si legge nei meme in riferimento all’adv. E poi c'è la counterpart maschile, che di fronte alla fisicità esibita reagisce in due modi: panico o determinazione. "Questo è il mio fisico dopo 6 mesi di palestra" è il mantra autoironico di chi, spinto dall’invidia o dal sacro fuoco del riscatto, corre ad abbonarsi al fitness club più vicino. Ed ecco che Calvin Klein, proprio come negli anni '90, non ha solo venduto mutande, ma ha creato un fenomeno culturale che sta ridefinendo l’aspirazione estetica maschile.
Jung Kook, Jeremy Allen White and co.
Ma non è solo Bad Bunny a tenere in piedi il tempio della mascolinità ritrovata. Poco più di un anno fa, Jung Kook dei BTS ha fatto impennare i profitti con una campagna in bianco e nero di Calvin Klein che grondava sensualità, oltre a generare la modica cifra di 13,4 milioni in impatto mediatico. Ma il vero precursore di questo ritorno alla mascolinità più cruda e autentica è stato Jeremy Allen White. La sua presenza come modello per il marchio underwear è stata un punto di svolta, non tanto per l’esibizione di un fisico scolpito - quello lo fanno in tanti - ma per l’idea che incarnava. White non è il classico sex symbol costruito a tavolino, il suo corpo non ha la perfezione asettica di un fitness model, ma parla di lavoro fisico, di un’attrattiva ruvida che si rifà ai canoni maschili pre-metrosexual. È il corpo di un uomo che lavora, che suda, che incarna quell’estetica blue-collar americana che Hollywood sta rivalutando. Il suo successo in "The Bear”, oltretutto, ha contribuito a creare un nuovo immaginario: l’uomo che cucina, che ha le mani sporche di farina e olio, ma che sotto la t-shirt bianca attillata nasconde muscoli scolpiti dalla vita più che dalla palestra. L’uomo Calvin Klein non chiede il permesso di essere desiderato.

Ma perché proprio adesso, dopo anni di fisici esili ed emaciati, si torna a sbavare di fronte a una mascolinità così esplicita e primordiale? La risposta, come spesso accade nel fashion system, è tanto evidente quanto sfuggente. Tra caos geopolitico, incertezze economiche e il continuo frullare dei cambiamenti sociali, viviamo un’epoca in cui ogni cosa sembra in bilico, e la mascolinità non fa eccezione. Di conseguenza, il desiderio di certezze si fa sempre più forte e la virilità, quella vera, grezza, che si riflette nei muscoli scolpiti, è diventata un di simbolo di resistenza in un mondo in cui le tendenze corrono troppo veloci. Perché diciamocelo, una volta per tutte: cosa c’è di più rassicurante di un uomo che si può toccare senza sfaldarsi al primo vento contrario? Dopo anni in cui la delicatezza si proponeva come un simbolo di seduzione postmoderna, il corpo virile sembra essere la risposta a un desiderio collettivo di mascolinità "sicura", schietta, accessibile. E la moda se ne fa eco, cavalcando questo concetto primitivo ma incredibilmente contemporaneo. E non si tratta solo Calvin Klein. Pensiamo alla moda maschile che torna a giocare con il tailoring iper-mascolino, con la spalla costruita, con la silhouette muscolare, sulle passerelle di brand come Saint Laurent, Dolce&Gabbana, Willy Chavarria e Duran Lantink. O alla crescente fascinazione per gli anni ’90, epoca in cui l’uomo ideale aveva la pelle lucida di sudore e addominali da copertina di Men’s Health.

E qui arriva il cortocircuito: se da un lato è liberatorio vedere corpi maschili messi sotto i riflettori con la stessa carica erotica che il marketing ha riservato per decenni alle donne, dall’altro, in fin dei conti, si ritorna sempre a un immaginario che sembrava superato. Per anni ci siamo raccontati che la vulnerabilità maschile poteva essere sexy, che il fascino stava nel non avere bisogno di una mascella scolpita per attrarre, ma ora il pendolo torna indietro. Il corpo si fa tempio e moneta di scambio, l’idea di virilità si asciuga di ogni ambiguità. La moda ripropone, rigira il passato in nuove confezioni, e in questo gioco ciclico, l’uomo forte, bello e dominante tornerà sempre a reclamare il suo posto sotto i riflettori. Il mercato ci ricorda la sua legge più brutale: non importa quanti anni passiamo a cercare di cambiare le regole del desiderio, il sesso vende e venderà per sempre. O per ora, almeno, finché il prossimo trend non busserà alla porta.
