“Bisogna avere il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo”: lo ha scritto Enrico Mentana su Facebook, in un post che il direttore del telegiornale de La7 ha accompagnato con un’immagine forte, quella di una delle Bücherverbrennungen (“roghi di libri”, appunto) avvenute a Berlino nel 1933, circostanze in occasioni delle quali venivano bruciati tutti i testi non corrispondenti all'ideologia nazista.
I “mi piace” sono arrivati a profusione, ma, tra chi si è spinto a dire la propria, in massima parte la presa di posizione di Mentana ha suscitato commenti critici, quando non insulti (tanto per dimostrare che i social “non” hanno un problema), oltre ai classici “la cancel culture non esiste”. Visto che invece indubbiamente esiste, vediamo di capire e far capire di che si tratta.
Con cancel culture, espressione ormai diffusa soprattutto negli Stati Uniti traducibile come “cultura della cancellazione”, si intende (prendendo in prestito una definizione apparsa sul Post) “la tendenza – accentuatasi molto negli ultimi anni sui social network, soprattutto nelle persone di sinistra, nei giovani e tra gli attivisti antirazzisti – ad attaccare collettivamente persone famose (ma non solo, ndr) di cui emergono comportamenti, idee o dichiarazioni ritenute sbagliate e offensive, indipendentemente dall’entità e dal fatto che siano attuali o molto antiche, chiedendo punizioni immediate come il loro licenziamento”. La cancel culture (la cui entrata in voga è legata al prendere piede del MeToo, anche se non mancano precedenti come quello di Justine Sacco, pr licenziata per una battuta) non va confusa con il semplice boicottaggio: boicottaggio è quando un film esce e tu non vai a vederlo perché tra gli attori c’è qualcuno che nella vita privata ritieni abbia fatto qualcosa che non ti piace, cancel culture è quando il film già pronto non esce perché la produzione è terrorizzata da qualcuno che su Twitter ha scritto che quell’attore non deve mai più lavorare; boicottaggio è quando non compri, cancel culture è quando fai pressioni perché chi è collegato a un prodotto o a un lavoro perda il proprio impiego e sparisca dalla sfera pubblica, cioè quando chiedi la testa di qualcuno. Posto che entrambe sono scelte discutibili in quanto mosse di norma da un sentirsi soggettivamente offesi, tra la prima e la seconda c’è una bella (anzi, brutta) differenza.
Chi ritiene che la cancel culture non esista – oltre che andare a cercarsi quanto detto al riguardo da Barack Obama – dovrebbe passare una giornata nei panni attuali di Kevin Spacey, di Woody Allen, di Roman Polanski, di Louis Ck, di J.K. Rowling o dell’ex direttore editoriale del New York Times James Bennet, oltre che di moltissimi altri meno noti o addirittura sconosciuti che sono stati licenziati a furor di qualche aspirante Robespierre di Twitter per essersi macchiati del terribile reato di aver pubblicato (magari anni prima) un cinguettio equivocabile o anche solo sgradito a qualcuno, e che al contrario dei grandi nomi dell’intrattenimento non possono contare su patrimoni pregressi né sulla possibilità di ricorrere con una qualche efficacia a canali alternativi rispetto al mainstream.
Quando si parla di cancel culture non può non venire in mente la lettera aperta pubblicata l’estate scorsa da Harper’s Magazine. Tra i firmatari, Martin Amis, Margaret Atwood, Noam Chomsky, Salman Rushdie e la stessa J.K. Rowling. Le preoccupazioni esplicitate dai firmatari toccavano argomenti centrali, a partire dal “libero scambio di informazioni e di idee, la linfa vitale di una società liberale”, che a loro dire “incontra sempre più limitazioni”. Veniva inoltre sottolineata “un’intolleranza verso le opinioni contrarie e la moda della gogna pubblica”. Si parlava poi di un conformismo delle idee che porta le persone che di lavoro scrivono, dirigono film o fanno arte ad adeguarsi al presunto pensiero collettivo: il rischio di essere “cancellati” per chi dice qualcosa di non allineato secondo i firmatari è diventato troppo alto, e riguarda pure i casi di cose dette o fatte in passato, anche quando all’epoca era considerato culturalmente e socialmente più accettabile.
Per estensione, cancel culture viene tendenzialmente usato anche in riferimento a rimozioni e distruzioni di altro tipo, in questo caso legate più a Black Lives Matter che al MeToo: quelle di statue (sinistramente simili all’iconoclastia dell’Isis), quelle di eventi, quelli di nomi di edifici, oltre che quelle di opere e autori del passato. Non è chiaro a cosa di tutto questo o eventualmente altro abbia fatto riferimento Mentana con il suo post: in ciò che è stato pubblicato dal direttore nei giorni precedenti non si trova nulla di correlato o che possa far pensare che Mentana stesse maturando il convincimento di prodursi in un’uscita del genere: tra i ben poco teneri commentatori sembra prevalere l’idea che il direttore si riferisse al “caso Biancaneve” (quello del mancato consenso ottenuto dal principe per il bacio che si rivelerà poi salvifico), ma il diretto interessato non si è espresso, né ha “blastato” i commentatori come era solito fare ai bei tempi.