Moto Guzzi ne fa cento e c’è una storia pazzesca da raccontare. Però per raccontare la storia bisogna averne vissuta un po’ e bisogna pure saperne di brutto quando è particolarmente gloriosa. Ecco perché per parlare di una leggenda, la Moto Guzzi, ci siamo rivolti a un mito: Nico Cereghini. Lui della Moto Guzzi ne ha molti di meno, sia inteso, ma noi siamo quelli cresciuti con il refrain “casco in testa ben allacciato, luci accese anche di giorno e prudenza sempre” e, quindi, il numero di telefono da comporre poteva essere solo uno. Anche perché, come ha raccontato (scherzando) qualche anno fa in una intervista al nostro direttore, Moreno Pisto, lui, Nico Cereghini, sente di avere nel sangue qualche gene di Omobono Tenni (uno dei papà del motociclismo da corsa in Italia che legò il suo nome proprio alla Moto Guzzi).
Parola di Nico
Sono testimone solo di una parte della grande storia di Moto Guzzi – ci ha detto – gli anni più gloriosi non li ho vissuti, ma li ho studiati avendo trascorso una vita tra le motociclette e ne ho sentito parlare. Avevo più o meno nove anni quando Guzzi si ritirò dalle corse nel 1957 e si chiuse, quindi, la prima parte di quella grande storia che aveva contato anche le vittorie al Tourist Trophy come prima moto non inglese a trionfare sul Mountain. Una storia che era stata anche capacità di scrivere il futuro delle due ruote anche dal punto di vista dell’innovazione tecnologica. Vincevano nelle corse e, contestualmente, facevano moto per tutti che hanno accompagnato un Paese sia durante gli anni bui della guerra, sia in quelli di rinascita del Dopoguerra.
E poi?
Poi, dopo un periodo difficile, l’aquila è tornata a volare. Moto bellissime, con la particolarità straordinaria di richiamarsi ai nomi degli uccelli. La Lodola, il Cardellino, Lo Stornello, il Falcone, bellissimi. Dai rapaci a quelli più piccoli e innocui, una grande idea di libertà, tipica delle moto, che attraverso quei nomi riusciva anche a sostanziarsi. Che ti devo dire? Erano bellissime, e diverse profondamente tra di loro. C’era la moto per andare a lavorare e quella che invece trionfava nelle corse. Il Falcone della Polizia dava l’idea di essere qualcosa di indistruttibile. Moto Guzzi è stata, in qualche modo, simbolo di un Paese, conservando sempre una particolarità rara: mantenere una sorta di taglio artigianale nonostante la capacità di essere pionieri nell’innovazione e nei progressi tecnologici. Negli anni ’60 e ’70 la V7 ha scritto la storia in tutte le sue declinazioni, fino alla Sport, un capolavoro assoluto. Non le hanno dato il nome di un uccello perché ce ne voleva uno un po’ troppo ciccione, ma è stata la capostipite di una famiglia che ancora oggi ha successo.
Oltre al taglio artigianale si è mantenuto sempre anche quello fortemente legato alle radici di un territorio…
Sì, anche se non sempre nella storia di Guzzi. Ci sono stati anche periodi, purtroppo, in cui si è agito diversamente in nome del denaro e di speculazioni edilizie, per fortuna poi quando è arrivato Ivano Beggio prima e quando è arrivato il Gruppo Piaggio poi, la tradizione è stata ritrovata. Ed è vero che quando si dice Moto Guzzi si pensa ad un luogo preciso, a Mandello e a quei monti che, pur non avendo le caratteristiche di aree più industrializzate, hanno saputo generare futuro e liberare opportunità
La prima su cui sei salito?
Un Galletto. Era di un mio zio che veniva dalla Lambretta, sembrava di essere sopra una nave su quella moto.
C’è un modello su tutti quelli di Moto Guzzi che Nico Cereghini metterebbe sopra agli altri?
La V7 Sport. Quando le moto grosse stavano diventando un mercato importante, la Guzzi era partita con il piede sbagliato, poi ha recuperato tirando fuori questa moto che era straordinaria, soprattutto per quanto riguarda la ciclistica.
E un modello che invece avrebbero dovuto evitare di produrre?
Mi viene da dirti il T5, una moto ballerina che era stata data in dotazione anche all’Arma dei Carabinieri. Dai militari si sentiva spesso dire che, superata una certa velocità, fosse necessario lanciarsi nei fossi perché la moto diventava inguidabile. Dico quel modello, ma per ricomprenderci, comunque, tutti quelli degli anni in cui Moto Guzzi sembrava essersi messa in testa di voler copiare le moto giapponesi, provando a fare delle quattro cilindri che erano a tutti gli effetti dei tentativi di ricalcare i motori Honda. Poi, per fortuna, anche in quel caso si è tornati alla tradizione.
I guzzisti si considerano una famiglia, sono spesso riuniti in gruppo e appartengono a quella categoria di motociclisti che mai cambierebbe marchio, nemmeno per provare. Con le dovute proporzioni, fanno un po’ pensare agli harleysti?
Dal punto di vista dell’affezione degli appassionati o dell’identità sì. Ma il paragone Harley Davidson e Moto Guzzi in generale non può reggere. Non per caratteristiche delle moto, sia inteso, ma per numeri troppo diversi. Nel senso che Guzzi non ha mai pensato più di tanto all’export e quindi i numeri sono rimasti limitati. La dimensione del marchio è troppo diversa.
Hai partecipato anche alle riprese di un docufilm sulla storia di Moto Guzzi, ti sei già rivisto?
Non ancora, penso che lo farò stasera. Però mi ha fatto piacere essere coinvolto nel progetto di piena passione di due ragazzi che hanno voluto raccontare questa straordinaria storia italiana. Hanno fatto tutto da soli, trovando anche il modo di finanziare in autonomia il docufilm e quando m’hanno chiesto di dire la mia e partecipare ad alcune riprese non mi sono certo tirato indietro.