A qualcuno arriva come un campanello, di quelli che suonano nei film americani alla reception del motel. È un momento, la sveglia, il bisogno. Quando suona deve ancora succedere tutto perché è un inizio, eppure è già successo abbastanza per avere l’avanti e il via. Luca Massironi si firma FLYCAT da quando doveva ancora compiere 14 anni. Classe 1970, alto, tatuaggio sul collo, viso scavato. È uno dei massimi esponenti della urban art, del writing in Italia. C’era dalle prime Nike, dal primo Boom Bap suonato a Milano. Le sue risposte: lunghe quando racconta le sensazioni, minime per descrivere sé stesso. Il suo mestiere: “insegna a credere nella bellezza”. La sua aspirazione, dice, “è la santità". Lo abbiamo chiamato quando BMW ha deciso che dovesse essere lui a disegnare sul CE 04, scooter elettrico con cui si intravede un pezzetto di quello che sarà il futuro: bold, lo chiamano gli americani. Caccia di Guerre Stellari risponde lui, aggiungendo che è impossibile non accorgersene. Mentre fissiamo l’intervista gli diciamo che la fiancata dello scooter ricorda il suo lettering: tratti separati, geometrie nascoste. Risponde che è una buona idea e cominciamo a parlare.
Perché FLYCAT?
“Mi ero ispirato a Top Cat, che è un personaggio di Hanna Barbera in cui racconta una piccola gang di New York. Era il 1984, non avevo ancora compiuto 14 anni. Da Top Cat è diventato FLYCAT”.
Ed è stato il tuo nome dalle prime tag?
“Ero un ragazzino, facevo i primi tentativi, cose molto spontanee. Il mio primo approccio con il writing è stato su me stesso, ero io l’opera su cui lavorare. Mio fratello mi regalava gli Uni Posca e io mi dipingevo scarpe, vestiti e giubbotti. E questo, intendo vedere l’opera che continua a muoversi, è una cosa che mi ha ispirato tantissimo. È diventata una forma di coraggio per combattere la mia timidezza”.
Il primo oggetto che hai dipinto?
“Quando è arrivata la cultura hip-hop, con tutto il suo immaginario e le sue uniformi - lo dico con accezione positiva, perché noi ci sentivamo dei soldati dell’area urbana - siamo partiti dai giubbotti, le giacche di jeans: Levi’s, Wrangler. E chi non poteva permettersi questi grossi brand li prendeva di sottomarca. Sulla schiena ci scrivevamo il nostro nome, oppure qualche claim. C’era hip-hop don’t stop, electro rock… dal giubbotto siamo passati alle scarpe. Ai tempi non era facile reperirle, si è dovuto aspettare qualche anno. Ricordo ancora le prime Nike, le Wimbledon, bianche con la striscia azzurra: dopo un anno e mezzo che erano arrivate a Milano sono riuscito a convincere mia madre a regalarmele e le ho dipinte subito. Figurati la sua reazione. Poi però l’ha accettato”.
Ora la sneaker è diventata pop, in alcuni casi lusso: qualcuno ne ha fatto un mestiere e qualcun altro dei soldi. Come la vedi?
“Guarda, in passato ho collaborato con brand come Vans per fare queste cose, parlo più di vent’anni fa. La vedo come una cosa positiva, non tanto per dipingere un oggetto che poi viene indossato, ma proprio per l’esigenza di fare arte, al di là della storia del singolo artista. Perché alla fine cosa passa? Che sono fatte a mano, e specialmente in questo periodo la vedo come una cosa molto positiva. Però se tu allontani l’arte dalla sua filosofia diventa semplicemente una tecnica. È così col writing, col rap, con la break-dance: dietro c’è sempre un movimento culturale con le sue regole. Tu puoi copiare, però non trasmetti nulla. È solo un involucro, come andare a comprare una torta dal pasticcere e uscire con una bellissima scatola vuota. Manca il contenuto, il significato”.
Parliamo di BMW CE 04: Cosa ti ha trasmesso? La fiancata, appunto, ricorda un po’ il tuo lettering.
“Io sono cresciuto con Guerre Stellari - non Star Wars - quindi l’X-Wing di Luke Skywalker è sempre nel mio cuore. Quando ho visto il CE 04 la mia mente è andata lì in un attimo e sono sicuro che nella mente di chi l’ha disegnato c’era questo elemento, perché per me è stata una cosa del tutto automatica. Col mio intervento ho voluto creare una sorta di manto protettivo alla struttura del mezzo. L’ho chiamato urban camouflage perché dev’essere pilotato nella città, come chi si inoltra in terreni ostili e si deve dotare di un equipaggiamento adatto”.
Avevi mai disegnato su di uno scooter?
“Sono attratto da ciò che si muove. Dinamicità, velocità e movimento. Questi sono i tre elementi su cui si regge la mia filosofia artistica, è una cosa che mi ha sempre affascinato. Abbiamo dipinto sulle carrozze della metropolitana per poi arrivare in studio e lavorare con calma nella nostra dimensione. La stessa cosa l’ho fatta su dei mezzi. Poi devo dire che sono molto legato al futurismo, che poi è il motivo per cui ho battezzato la mia visione artistica ‘Fvtvri$mo Cæle$te’. Questa cosa mi ha spinto a realizzare anche dei giocattoli, su quattro e due ruote”.
Come è nato il tuo stile?
“Pensa ad un tatuatore: non è semplicemente il disegno che riporti su di una persona, è anche la posizione, il movimento che fa quella parte del corpo, come evolverà il disegno e cosa succederà con l’invecchiare della pelle. Io cerco sempre di esaltare le forme come si faceva nella metropolitana, cercando di creare il bello. O almeno quello che è bello per me”.
Cosa insegna il tuo mestiere a chi lo fa?
“A credere nella bellezza”.
Ha senso. A cosa aspiri quando disegni?
“Alla santità”.
È una bella risposta.
“Ma non è per dissacrare, anzi. È per rendere il giusto tributo a chi è venuto prima di me, cercando di mantenere sempre vivi i sogni del bimbo che ho dentro. È il mio carburante”.
È una religione, la tua?
“Si, è così. Dipingere per me è una liturgia. Quando mi alzo la mattina faccio sempre qualcosa, che sia tracciare una linea su di un foglio bianco, disegnare, scrivere un pensiero e metterlo su carta, o magari realizzare un elemento a tre dimensioni. Questo dev’essere sempre l’inizio della mia giornata”.
E probabilmente a quel punto non smetti mai di fare il tuo mestiere: la mattina quando ti svegli, al bar quando vedi una tazzina e pensi a come potresti pitturarla…
“Ventiquattro ore al giorno, ci aggiungo anche un minuto. Io mi ritengo molto fortunato perché ho avuto la pazzia di fare di questo la mia vita, di non lasciare che rimanesse solo una passione. La mia fortuna, quando mi innamorai di questo fenomeno artistico, fu quella di capire subito che ne avrei fatto la mia vita. Non sapevo quanto sarebbe stata lunga, la mia vita. Ma che questo ne avrebbe fatto parte sì. E così è stato, nel bene e nel male”.