È di poco fa la notizia riguardante un fighter irlandese, Paddy McCorry, protagonista di una solida vittoria al Cage Warrior di Roma. Battendosi con un fighter israeliano, gli grida in faccia in posizione di monta sotto una pioggia di colpi: “Free Palestine, Free Palestine”, per poi portare sulle spalle quella bandiera ormai divenuto un simbolo nel momento della vittoria. Un gesto che ha diviso, non per la causa – è infatti noto come migliaia di sportivi di ogni specialità stiano esprimendo solidarietà verso la nazione sotto assedio – ciò che ha dato realmente fastidio è stata l’estetica del gesto.

Non si trattava di tennis, non era un giocatore di calcio che scartava l’avversario con un tunnel: era un fighter di MMA irlandese che si scagliava contro un avversario quasi inerme, sputandogli in faccia l’odio di una guerra. Il tutto si è concluso con un post del vincitore che ripropone la scena più cruda del combattimento con la didascalia: “Street Justice”, e con Farage, lo sconfitto israeliano, che si toglie dai social.
Una vicenda oggettivamente amara, che merita però di essere contestualizzata. Partiamo dallo “Street Justice”: Paddy riprende questa frase dal commento di qualche giorno prima del suo collega John Mitchell, uno che entra nella gabbia con una kefiah sul volto e che, come lui, si spende per la causa palestinese. Perché? Perché sono irlandesi e, per una serie di parallelismi storici, si identificano con i popoli oppressi.
In secondo luogo c’è l’identità del fighter israeliano: Shuki Farage era stato un ex militare, membro della IDF, e sui profili social aveva foto in zone di guerra. E poi ci sono gli sport da combattimento, i migliori attori non protagonisti della geopolitica mondiale. Dal neo presidente pugile della Polonia al da poco defunto Papa Francesco, passando per Trump, Putin e Klitschko, gli sport da combattimento sono il fil rouge della geopolitica attuale, questo perché sono talmente assoluti nel primeggiare la forza, che in un mondo come il nostro, dove la pancia sostituisce la mente e la forza diventa il binario delle decisioni, risultano quasi ancestrali.
C'è una frase di un famosissimo anonimo che dice così: “Se dovessi scegliere tra diventare l’uomo più potente della Terra, tipo il presidente degli Stati Uniti, o il campione dei pesi massimi di pugilato, non avrei dubbi: sceglierei il campione dei massimi di pugilato, perché niente è più autorevole di entrare in una stanza e sapere di poter battere tutti fisicamente".
Ecco, figuriamoci quanto dev’essere autorevole spingere la propria opinione mentre stai letteralmente picchiando il tuo oppositore. Questo è ciò che è successo l’altra sera nella gabbia e ciò che successe con Muhammad Alì, quando si rese grande umiliando Floyd Patterson, uno che scendeva in guerra contro i vietnamiti. È, a proposito, anche ciò che costò l’arresto e la sospensione ad Alì, che rifiutò pubblicamente la leva militare. Ma è anche ciò che, seppur in parte, squarciò l'indifferenza dell’opinione pubblica americana riguardo alla guerra in Vietnam.
Perché è questo il ruolo degli sport da combattimento nei periodi bellici: dai tempi degli antichi greci, passando per Max Schmeling e Joe Louis – che combattevano per la dittatura contro la democrazia – arrivando a McGregor contro Khabib. Gli sport da combattimento sono stati il teatro di guerre ideologiche memorabili, perché, proprio per il concetto di forza assoluta e di supremazia fisica, rispondono talmente alle leggi antropologiche primordiali che governano gli stessi uomini che muovono le guerre, tanto da potersi, a volte, sostituire ad esse.
