Federico Buffa la racconta con la precisione di un archivista e la nostalgia di chi sa che certe scene non torneranno più. La racconta nel PoretCast di Giacomo Poretti, e mentre parla si capisce che non sta solo riportando un aneddoto: sta facendo un confronto tra due epoche. Due mondi che hanno ancora lo stesso campo e la stessa pallina, ma non la stessa libertà. Adriano Panatta è in finale al torneo di Montecarlo. Di fronte, Guillermo Vilas. E la notte prima del match si presenta alla sua porta una coppia surreale: Paolo Villaggio e Ugo Tognazzi. Due geni, due canaglie adorabili, che gli dicono solo: “Dai, facciamo serata”. Panatta prova a spiegare, a declinare, a ricordare che il giorno dopo ha una finale importante. Ma loro non sentono ragioni. E lui, alla fine, si lascia trascinare. Non in senso metaforico: li porterà letteralmente in spalla fino all’albergo. I Il giorno dopo Panatta perde nettamente contro Vilas. E ogni volta che Adriano cambia campo, li vede lì, Tognazzi e Villaggio, che ridono. Non del punteggio, ma della serata. “Questo poteva succedere soltanto in quegli anni lì, con la racchetta di legno, con una vita folle. Quale super campione oggi si fa cooptare in una situazione così?”, si chiede Buffa. E la risposta è scontata: nessuno.

Oggi il tennis non si gioca solo sul campo. Si gioca anche nei feed, nei frame, nei corridoi dei tornei. Ogni sguardo viene ingrandito, ogni gesto decifrato, ogni cena trasformata in notizia. Non basta vincere: bisogna stare sempre al proprio posto, anche quando si è fuori scena. Jannik Sinner si allena a Roma e qualcuno zooma sulle sue espressioni facciali per capire se è teso, se è stanco, se è felice. Berrettini posta una storia con la fidanzata e subito scatta il titolo, l’interpretazione, la dietrologia. Non c’è più lo spazio per sbagliare ridendo, non c’è più la possibilità di una notte fuori dalle righe. Tutto è regolato, filtrato, calendarizzato.
E proprio per questo l’aneddoto di Buffa colpisce: perché parla di un tempo in cui perdere una finale per una serata con Tognazzi non solo era possibile, ma umano, raccontabile, persino memorabile. Un tempo in cui il talento contava più del protocollo, e la persona più del personaggio. Già nel 2018 Panatta aveva analizzato la nuova generazione. In Il tennis è musica parlava dei ragazzi, quelli pronti a “rottamare gli Immortali”. E senza fare nomi, lanciava un consiglio che sembra scritto apposta per oggi: “Prendere molto sul serio ciò che si fa, perché è giusto farlo bene, magari un po’ meno se stessi, il proprio ruolo, l’idea stessa che si possa essere, così giovani, già delle star. L’intelligenza e il buon senso vengono prima di tutto. Un tennista tira una pallina il più possibile vicino a una riga, non potrà mai essere più importante di uno scienziato”.
È tutto lì. Il punto non è togliere rigore al professionismo, ma ridargli un’anima. Ricordarsi che si può essere eccellenti anche senza trasformarsi in automi. Il tennis oggi ha più più soldi, più visibilità. Ma ha perso quella leggerezza che lo rendeva imprevedibile, umano, raccontabile? Certo, i tennisti con i social e la sovraesposizione ci mettono del loro, ma quello che è certo è che nessuno avrebbe filmato Panatta che trascina Villaggio per le scale. Nessuno avrebbe chiesto le sue scuse in conferenza stampa. Nessuno avrebbe titolato “distrazione notturna prima della finale”. Era un altro mondo. Dove si poteva perdere senza perdere tutto. E dove, a volte, bastava una serata con Tognazzi per scrivere una storia da tramandare. Anche se non alzavi il trofeo.