È stato anche fragile, Matias Almeyda. Lo ha raccontato lui stesso nella sua autobiografia Almeyda: Anima e Vita. Beveva litri di vino, per poi bruciare tutto correndo. L’agonismo portato al limite per riparare ai danni del vizio. Fumava anche. Sei stagioni le ha vissute in Italia tra Lazio, Parma, Inter e Brescia prima di tornare in Argentina. La carriera la finisce al River Plate che poi allenerà e dove si guadagna, nel 2012, il ritorno nella Primera Divisiòn dopo la retrocessione. Finisce a Buenos Aires, la città da cui era partito: Almeyda è nato nella provincia della Capital, ad Azul, prima di entrare nelle giovanili de Los Milionarios. La prima esperienza in Europa la fa a Siviglia. Ed proprio a Siviglia che ora allena dopo le due stagioni all’Aek Atene, con cui ha vinto un campionato greco. Nella scorsa estate era anche stato accostato al Pisa, ma alla fine ha scelto la Spagna. Almeyda e i suoi hanno battuto 4-1 il Barcellona di Hansi Flick nell’ultima giornata prima della pausa per le Nazionali, hanno raggiunto il sesto posto in Liga, a pari punti con l’Atletico del Cholo, e vedono la zona Champions. La “10” rojiblanca se l’è presa Alexis Sanchez, 37 anni da compiere a dicembre e decisivo contro i blaugrana con il calcio di rigore che ha aperto le marcature. Si sa, “i campioni sono così”. Mister Almeyda in conferenza stampa dopo la vittoria ha parlato anche del suo passato, di come stesse per mollare il calcio ai tempi dell’Inter con ancora due anni di contratto, vivendo “quel lato oscuro, quella parte triste che un calciatore vive quando smette di giocare. E per questo do priorità al fatto che amino il calcio e che lo giochino fino a quando possono”. “Ho passato cinque anni in cui ho sofferto molto”, ha detto. Si è fatto aiutare da professionisti, dalla famiglia e dagli amici. “Non vendo fumo, non lo vendo. Ci provo, almeno”.
“Pressione è avere tutto e avere niente”. Da calciatore è vera più la prima cosa. Avere tutto significa dover dimostrare di valere tutti quei soldi, saper gestire le critiche e le chiacchiere. Senza piangersi addosso perché si hanno gli strumenti per far fronte alle difficoltà. Poi, a fine carriera, la seconda parte di quella frase diventa reale: il telefono non squilla più, bisogna sapersi reinventare, gli amici che reputavi tali spariscono. “Mentre giochi a calcio sei come una banca, continui a prestare. Tutti aspettano, sono amici del campione”, ha aggiunto Almeyda, “Sono stato amico di Maradona, anche al migliore è successa la stessa cosa. Se è successo a lui succederà a tutti”. Tanti, come l’argentino, dopo il ritiro scelgono la panchina, ma non tutti riescono ad imporsi. Troppo presto per valutarlo come allenatore, certo è che Almeyda nel suo nuovo ruolo ci mette tutto ciò che aveva come calciatore: determinazione, corsa, garra. Così è il suo Siviglia, così si battono i fenomeni del Barcellona: “Ho i dati che questa squadra non vince qui da 10 anni contro il Barcellona. 10 anni, più motivazione di questa non potete avere. 10 anni che non si vince qui, quindi voi potete sfatare questo. Quindi se lo sfatiamo andiamo a segnare un cammino. Non è una finale, non sono partite decisive, è orgoglio. E quando uno gioca con orgoglio gioca con il cuore. E quando si gioca con il cuore, si gioca con gli attributi, e quando si gioca con gli attributi non si hanno rivali. Quindi, convinti di quello che vogliamo fare. Andiamo a combattere, caz*o”. Cos’è, quindi, la pressione? “È quando ti buttano a terra e ti lasciano solo come un cane”, ha proseguito ancora in conferenza, “ti dicono: ‘Che problema hai? Hai tutto’”. “Facciamo queste analisi degli esseri umani senza conoscerli, senza sapere cosa pensano e cosa sentono. E da quando sono allenatore mi sono trasformato in una sorta di quasi psicologo. Rilevo chi è depresso, rilevo chi ha dormito male per vari motivi”. Chi l’avrebbe detto che il ruvido centrocampista, l’atleta sbandato che beveva e fumava, che scappava dagli ultras nascondendo i familiari del bagagliaio della macchina (lo racconta ancora Almeyda nel suo libro), che si è fatto scortare dai rugbisti per proteggersi dai tifosi; ecco, chi l’avrebbe detto che quell’uomo sarebbe diventato questo allenatore? Uno che non vende fumo. O che almeno ci prova.