È la rivelazione del Festival. Si presenta sul palco senza capi griffati ma con abiti già indossati nei precedenti concerti, si arrangia utilizzando pacchetti di patatine come reggi-spalline, all’Ariston ci va a piedi e non con l’autista, suona il piano e per fare l’assolo di chitarra si mette il microfono sotto le ascelle, gesto inconfondibilmente rock che è già entrato tra le immagini più belle di questa edizione sanremese. Eppure tra tutte queste cose manca quella più importante, ovvero che Lucio Corsi non è solo fresco originale e genuino ma è anche un cantautore maledettamente bravo.
I suoi testi sono creatività allo stato puro: piante e animali vestono accessori umani (“I girasoli con gli occhiali”), oggetti troppo belli per non avere un’anima vengono finalmente dotati di anima e corpo (“Se vado al porto lo chiedo alle barche/Che prendono il sole/Ma restano bianche”), avvenimenti storici vengono miscelati a personaggi della letteratura, abbattendo le barriere di Padre Tempo (“Francis Delacroix/Francis Delacroix per colpa degli dei/Fu fatto prigioniero al posto di Mattia Pascal/Nella battaglia di El Alamein”). Basta così? No, perché Lucio Corsi è anche un grande appassionato di MotoGP.
Fantastica la motivazione che Lucio ha espresso nel corso di un intervento a “Terra di Nessuno” – programma di Radio Freccia – alla vigilia del suo debutto nella Riviera dei Fiori: “La velocità vive nello stesso elemento della musica, ovvero l’aria. Le canzoni sono nell’aria e la velocità la fende l’aria. E poi l’altro elemento è il tempo; i piloti lottano contro il tempo e la musica ha a che fare col tempo. Ci sono tante analogie, la trovo poetica la velocità”. Matteo Campese, il conduttore radiofonico, gli ha proposto un gioco, una sorta di “La indovino con una” adattata alle telecronache della MotoGP. Cioè? Matteo faceva partire a tutto volume la registrazione di una telecronaca concitata di Guido Meda, Lucio doveva indovinare anno e circuito.
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Sono partiti dalla telecronaca degli ultimi giri di Motegi 2017: Lucio, sentendo la voce di Mauro Sanchini, colloca già la gara ad una domenica relativamente recente “perché se ci fosse stato Loris Reggiani sarebbe stato molto prima”. Poi capisce che si tratta di una battaglia tra Marc Marquez e Andrea Dovizioso, e allora ragiona ad alta voce: “Ce ne sono stati diversi, ma Giappone 2017 sotto il diluvio è una quelle che mi sta più a cuore”. Presa. Al secondo round Lucio la indovina davvero con una, nel senso che gli bastano cinque parole pronunciate da Guido Meda per indovinare: “Guardano al cielo le moto” – una frase che potrebbe suggerire qualcosa solo ad un fan incallito delle due ruote, uno di quelli che di tanto in tanto sentono l’urgenza di andare a riguardare le gare più epiche. Così Lucio ferma la registrazione: “Rossi contro Lorenzo, Catalunya 2009, 2009 perché Vale vinse il titolo quell’anno”. Matteo a quel punto è stupito, e Lucio gli spiega: “Ste cose mi hanno cresciuto, mi hanno emozionato. Le guardavo, ero lì con mio padre impazzito sul divano”.
L’ultimo banco di prova, per Lucio Corsi, è Assen 2013, il ritorno alla vittoria di Valentino Rossi in sella alla Yamaha, dopo il biennio in Ducati. Al suono di “alla faccia del bollito, del pilota che non ha più nulla da dire!”, Lucio azzecca e riavvolge il nastro: “L’ho vista, ero a Macerata, a Musicultura (ride, ndr), in hotel. Un mio caro amico, Giulio, si mangia ancora le mani perché quella vittoria di Vale lì non l’ha vista. Pensava che la gara fosse alle due, invece ad Assen una volta la anticipavano”. Infine gli viene chiesto se abbia scritto canzoni dedicate a qualche pilota in particolare: “Ancora no, ma mi ispirano”. Lucio allora infiocchetta l’ultima risposta e passa l’esame a pieni voti: “Mi ispirano anche i piloti che non ho visto correre, tipo Phil Read, Barry Sheene. L’estetica delle corse degli anni’70 è meravigliosa, rappresenta davvero la velocità. C’è proprio un design delle corse tipico degli anni settanta e ottanta, poi negli anni ’90 sono arrivati i piloti giapponesi che hanno portato un’estetica tutta diversa dei caschi, molto più manga e molto più colorati. Prima i caschi erano monocolore con qualche striscia per essere riconosciuti. Per me il casco più bello degli ultimi anni è stato quello del Sic, perché aveva quella semplicità degli anni settanta, un colore (bianco) e due linee (rosse). Era riconoscibile, era proprio lui”.