Mentre nel mondo del motorsport, e non solo, si discute del reale significato dell'epiteto razzista con cui Nelson Piquet ha definito Lewis Hamilton nel corso di un'intervista dello scorso novembre, cercando di capire se, e quanto, il termine usato sia dispregiativo e offensivo nella lingua portoghese, vengono anche a galla tutti i momenti più torbidi della carriera del tre volte campione del mondo di Formula 1.
Non se ne fa tanto una questione linguistica, come ha giustamente sottolineato anche lo stesso Lewis Hamilton nel suo post di risposta sui social, ma un fatto di intenzionalità: quando l'epiteto è stato usato, Piquet non stava definendo Hamilton il pilota più vincente della storia della Formula 1 ma lo stava criticando, definendo l'incidente con Verstappen alla Copse un gesto sporco da parte del britannico. Viene quindi naturale pensare che il termine, in ogni caso ritenuto razzista anche da molti brasiliani che hanno preso le difese di Lewis, in un contesto come quello in cui è stato utilizzato da Piquet abbia tutta l'intenzione di avere una connotazione negativa.
Ad aggravare la posizione del brasiliano, oggi criticato da tutto il mondo del motorsport mentre Red Bull e Max Verstappen (fidanzato con la figlia Kelly Piquet) scelgono di restare in silenzio, è il passato turbolento di Nelson, da sempre soggetto a critiche per i termini e i modi utilizzati per descrivere i colleghi.
Nel periodo d'oro della sua rivalità con Ayrton Senna destarono molto scandalo le parole di Piquet che, nel tentativo di denigrare l'amatissimo Senna, mise in giro la voce di una sua presunta omosessualità. Voleva ferirlo nel privato, là dove Senna è sempre stato più umano. Riservatissimo, schivo, protettivo e silenzioso. Voleva farlo lanciando un seme che ancora oggi, a quasi trent'anni dalla sua morte, torna qua e là di attualità. E se la morte rimette a posto gli equilibri, cancella il concetto dell'essere "nemici" in pista e livella i sentimenti anche dei più agguerriti rivali, così non è mai stato per Piquet. Che di Senna ha continuato a dir male, a definire "un pilota piccolo" o "un pilota sporco" senza diritto di replica o voglia, da parte di chiunque altro, di replicare mai. In un'intervista (il video qui sotto) si spinse a dire che, tra lui e Ayrton, il più forte doveva essere lui perché "Io sono ancora vivo".
Ma non finisce qui. Nel curriculum degli insulti del brasiliano anche quelli contro Nigel Mansell che, inattaccabile perché da sempre il più duro di tutta la griglia, ferì parlando dell'amatissima moglie definendola "racchia" e schernendolo dicendo pubblicamente che doveva essere così stupido da "essere l'unico pilota di Formula 1 ad avere una moglie brutta".
Botte su botte per difendere la propria incapacità di avere un confronto semplice, tra piloti. Nella sua carriera Nelson Piquet ha sempre dovuto usare l'insulto per ottenere rispetto, ha sempre dovuto alzare la voce per riuscire a dire qualcosa che fosse degno di nota e facendolo si è costruito la fama del pilota povero dentro. Di cui si fatica a credere nella buona fede di un linguaggio diverso dal nostro quando, come nel caso di Hamilton, dice ancora oggi una parola di troppo.