Javier Zanetti compie oggi, 10 agosto, 50 anni, e della sua vita e dei suoi miracoli sono pieni i giornali e i media che si occupano, anche a margine, di calcio. Miracoli, sì, perché il Vangelo apocrifo secondo Javier racconta anche della storia di tale Marek Kopacz, polacco, che una sera non saltò in aria solo grazie a un suo gol: Marek, resta seduto e avrai salva la vita, non è questa la tua ora. Se non la conoscete, sul web la si romanza a sufficienza partendo da un aneddoto rievocato dallo stesso Zanetti, una lettera giuntagli un giorno dall’uomo che gli spiegò l’episodio. Ma il suo vero miracolo è stato prima di tutto sportivo, perché arrivare all’Inter di metà anni Novanta assieme a Sebastian Rambert – che 50 anni li festeggerà il prossimo 30 gennaio, ma chissà chi se ne ricorderà – pressoché nell’anonimato, rimanere sino a fine carriera, a 40 anni, e avere la soddisfazione di essere capitano nell’anno del triplete, sollevando la coppa al Bernabeu, rappresenta un percorso che, dati causa e pretesto, supera l’imprevedibile e sfiora l’irreale.
Tenacia, integrità e resistenza, talento anche e non poco, ma se in Argentina presero a chiamarlo "Tractor" – pare che il copyright sia di Victor Hugo Morales – era per la corsa e lo spirito di sacrificio, non per i giochetti. Anche per questo Javier Zanetti sembra provenire da un’epoca e da un calcio molto remoto, a prescindere da quell’immagine sempre uguale – mai un capello fuori posto, stessa acconciatura, stessa espressione – la cui fissità riporta a un Dorian Gray ancora nel pieno della gioventù, mentre il pallone invecchia malissimo. Dell’Inter è diventato icona riconosciuta e riconoscibile perché ne è stato una bandiera nei tempi bui e in quelli splendenti, privilegio per pochi; e diventare una bandiera partendo da lontano, nonché da ruoli che non danno grandi titoli perché gli strilli li prendono gli altri, è un risultato ancora più significativo, e dopo tutto l’elenco dei numerosi e gratificanti successi, il rapporto incredibilmente poco soddisfacente con la nazionale argentina e gli straordinari numeri in nerazzurro – appunto 28 anni, 19 stagioni da calciatore, qualcosa come 858 presenze – fanno parte di un corredo noto e che non aggiunge nulla alla sua grandezza. Se non, appunto, un aspetto statistico che trasmette l’idea di uno zenit irraggiungibile per chi è arrivato e arriverà dopo, essendo nel frattempo – e rapidamente – cambiato il mondo di cui ha fatto e fa ancora parte; e qui si parla tanto del calcio quanto dell’Inter, di cui è vicepresidente.
Per questo contano più che altro l’amore dei propri tifosi e il rispetto da parte di quelli avversari, l’utilità delle cause scelte – qui si parla di sociale, non di tifo – e come si viene percepiti. Ed è forse in quest’ultimo senso che Zanetti dovrà compiere un altro vero miracolo nei prossimi 50 anni: quello di non fare la fine del santino, o peggio ancora di un Jovanotti calcistico, un rischio che si fa assai concreto quando si piace alla gente che piace e che influenza, quando si viene descritti, da Gianni Riotta in giù, senza macchia e senza paura, perfettissimi e precisissimi, nonché sempre seduti dalla parte della ragione. Ma Zanetti è umano; ed è molto meglio.