Alla fine, è tutto imperfetto. Ѐ il tempo verbale con il quale ora tocca riferirsi alla vita di Gianluca Vialli, morto a Londra a 58 anni, vittima di quel tumore al pancreas che lo aveva colpito nel 2017 e che aveva cambiato il senso e la direzione della sua esistenza. Il timore per l’aggravamento delle sue condizioni, dopo avere annunciato l’intenzione di prendersi una pausa dall’impegno di capo delegazione della Nazionale per curarsi, era divenuto una certezza quando si era sparsa la notizia delle frequenti visite dei familiari nella clinica inglese in cui era ricoverato. Per come si era raccontato ed esposto durante la malattia, un po’ com’è accaduto a Sinisa Mihajlovic, ha infuso forza a tanti, e del resto era esattamente ciò che lo stesso Vialli si augurava nel suo libro (Goals, Mondadori, 2018): “Voglio essere di ispirazione agli altri, voglio che qualcuno mi guardi e mi dica: è anche per merito tuo se non ho mollato”. Lo ha fatto e continuerà a farlo, anche se quel messaggio, oggi senza il lieto fine, suona dannatamente imperfetto.
Rimane così nella mente di tutti un’immagine, quell’abbraccio con Roberto Mancini al termine di una delle tante gare dell’Europeo, estate 2021. Un abbraccio che è calcio, amicizia e vita, quella di due ragazzi che di strada insieme ne hanno fatta parecchia e tanto basta per volersi bene. Erano i dioscuri di Paolo Mantovani, Mancini e Vialli, il genio e la forza di volontà della Sampdoria delle imprese impossibili, lo scudetto, e di quelle che non riuscirono, la Coppa dei Campioni; si sono poi ritrovati con quella maglia azzurra che, da calciatori, non aveva regalato loro grandi gioie, e la gioia se la sono ripresa nel più imprevisto dei trionfi. Capitano dell’ultima Juventus che ha alzato la Champions League, Vialli è stato un leader anche in Inghilterra, al Chelsea, da calciatore prima e allenatore poi. I sodali della sua carriera sono numerosi e hanno nomi d’antan: Domenico Luzzara ed Emiliano Mondonico, Paolo Mantovani appunto e Vujadin Boskov. Poi Marcello Lippi e Fabrizio Ravanelli, due degli uomini più importanti della sua calcisticamente matura vita juventina, fatta di trionfi, accuse, invidie e anche di un dolore atroce, riassunto nella voce spezzata in una mattina di primavera nel duomo di Salerno, il giorno del funerale dell’amico Andrea Fortunato.
Intraprendente, sveglio, curioso e di famiglia più che agiata, Stradivialli – così lo aveva ribattezzato Gianni Brera, un’invenzione che ne ricordava le origini cremonesi legandole a quelle del più grande liutaio di sempre – ha rappresentato per il pallone anni Ottanta un tipo di calciatore insolito e un ragazzo originale, vagamente dandy, scanzonato ma con criterio. Uno che in quella carriera glamour non cercava riscatto sociale e in fondo nemmeno soldi, ma piacere, uno che aveva anche qualcosa da dire e numerosi altri interessi, oltre a un certo spirito imprenditoriale e cosmopolita, come poi ha dimostrato nel post-carriera: non si finisce a lavorare contemporaneamente a Sky e alla Bbc se si sa solo di calcio, né se si è persone banali, se non si sa nulla del mondo e se, da una lunga e fortunata carriera nel mondo del pallone, oltre al denaro ci si porta dietro solo il ricordo di avversari, stadi, alberghi, aeroporti. Vialli un ex calciatore così non lo è mai stato, in perenne viaggio tra Milano, il castello di famiglia a Grumello e Londra, dove aveva conosciuto la moglie Cathryn White-Cooper, e che era l’altro suo luogo del cuore. L’ultimo.