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Addio Andrea De Adamich, sacerdote (maledetto) d’ogni indimenticabile domenica mattina

Emanuele Pieroni

5 novembre 2025

Andrea De Adamich è morto. Aveva 84 anni e, dopo una carriera da pilota, aveva trovato la strada speciale per raccontare i motori e il motorsport. Diventando, forse senza neanche saperlo fino in fondo, il pioniere che ha messo insieme una passione che si credeva di nicchia e che invece era di tanti e, inevitabilmente, anche il sacerdote di una messa domenicale che cominciava con un jingle che oggi, ammettetelo, non riuscirete a togliervi dalla testa. Per tutto quello che ricorderà, mentre si ricorda Andrea De Adamich

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Come lo racconti un jingle con le parole? Grand Prix era quella musichetta lì, colonna sonora di una passione immensa e di domeniche mattina in cui si aspettava quella mezz’ora su Italia1 come un ultracattolico aspetta l’ora della Messa. Che cominciava sempre così, con quel jingle trapanante che è irreplicabile in un articolo, ma che adesso suona nella testa mentre le agenzie battono l’ennesima notizia che ci ricorda che nel frattempo siamo diventati grandi: Andrea De Adamich è morto. Aveva 84 anni. Era stato un pilota di auto da corsa. Era un simbolo dell’Alfa Romeo. Aveva raccontato la Formula1 negli anni dei piloti che erano eroi su indomabili trappole mortali che suonavano come Dio quando sta contento e non come un phon quando ti asciughi i capelli. E, soprattutto, era stato conduttore di Grand Prix. La Messa di indimenticabili domeniche , con quel jingle che riporta a momenti, odori, sensazioni, pure arrabbiature tutte rigorosamente vissute sul lettone di un nonno che, senza dirlo e forse anche senza saperlo, provava a insegnare a un bambino che si può vivere rispondendo a due sole leggi: il cuore quando batte e un motore quando corre. Ok, ho divagato sul personale e non va bene, perché è di una morte che c’è da parlare.

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Solo che l’effetto che fa sapere che Andrea De Adamich non c’è più è qualcosa di prepotentemente più forte del fatto che non c’è più. Che, invece, è solo triste notizia da lasciare a chi - ricordando l’occhialetto, la pettinatura da impiegato e quel jingle - non si ritrova dentro una tempesta emotiva. Noi siamo cresciuti e lui, Andrea De Adamich, è morto. Anche i motori, adesso, vogliono farli girare senza un suono e con niente che brucia. E’ così che va e, come si dice sempre tra piloti, è così che sono le corse. Aggiungere qualcosa significherebbe non raccontare il genio di un uomo che, insieme a altri pionieri un po’ piloti e un po’ giornalisti, aveva capito – prima e meglio di altri – che anche i motori e le corse con i motori avrebbero potuto essere main stream. E non roba per qualche gentlemen e una manciata di fuori di testa senza alcun rispetto per la vita. Ha diffuso il verbo come un sacerdote fa ogni domenica, esattamente la domenica, anche se solo per mezz’ora. Dall’altare di quella che oggi si chiama Mediaset, ma che all’epoca era ancora solo la visione di un imprenditore che aveva capito come per vendere i sogni bisognasse raccontare le storie di chi i sogni li aveva realizzati. Tutto folle, ma anche tutto studiato.

Di quella messa al profumo di benzina, Andrea De Adamich era il sacerdote che guidava i concelebranti, mentre allevavano ragazzi (Guido Meda su tutti) che poi sarebbero diventati i narratori perfetti di un motorsport che finalmente è anche diventato per tutti. Ok, chi scrive deve ammettere di aver maledetto anche un po’ Andrea De Adamich, così dannatamente sbilanciato verso le auto, mentre l’io bambino, con un Malaguti Grizzly (casco in testa ben allacciato, luci spente perché non c’erano e prudenza solo fino a che quel nonno ti vedeva, ndr) pronto a diventare l’ossessione di tutto il resto della domenica, avrebbe voluto che si parlasse solo di motociclette.

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Andrea De Adamich nello studio di Grand Prix

Ecco, Andrea De Adamich era pure quello di “oh nonno, sempre questo? Ma quando tocca a Cereghini?” Minuti dentro una mezz’ora in cui si alternavano Giorgio Terruzzi, con quelle pagelle che erano poesia, Alberto Porta, e ingegneri che provavano a spiegare con parole semplici e qualche disegno quanta tecnologia ci fosse nelle corse. Insomma: quanto futuro. Che poi è la stessa cosa che Andrea De Adamich ha inseguito con quel format geniale e visionario chiamato Grand Prix che è diventato il minimo comune denominatore di tanti che rispondono solo a due leggi: il cuore, quando batte, e il motore, quando corre.

Ecco perché adesso, nel giorno stesso di una notizia che non si credeva possibile (si tende sempre a pensare che chi è stato riferimento infantile sia anche immortale, forse per illudersi d’essere ancora quei bambini) diventa triste parlare di eredità, come si fa quando c’è di mezzo qualsiasi morte. La morte di un uomo di motori, di un divulgatore di passione come Andrea De Adamich, dovrebbe avere una eredità sola: il pallino di generare futuro, muovendo da quella stessa passione. Senza scimmiottamenti. Accogliendo anche il nuovo e imparando a chiedersi sì quanto “era meglio prima”, ma ancora e di più quanto potrà essere meglio domani. E’ l’unico tributo che dona il giusto senso a un addio, mentre la tecnologia – sul momento – può venirci incontro per andare a ritrovare quel jingle. E riascoltarlo in loop.

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