Jerez 2020, Motegi 2025. Sono cinque anni e qualcosa di corsa verso un traguardo. Il nono titolo mondiale di Marc Marquez? No, quello è stato solo il grimaldello o, meglio, ciò che abbiamo visto di un vero e proprio processo alla persona in cui l’imputato alla sbarra è stato anche giudice, difesa, accusa e testimone. Quella frase, “finalmente sono in pace” - buttata là a caldo in una intervista - racconta sì un inferno attraversato, ma racconta pure anni e anni di udienze dell’anima. Sempre in presenza, mai in contumacia. Lavoro introspettivo, direbbe qualcuno. Ma forse sarebbe semplicemente voler definire qualcosa che è stato così personale da non averle mai davvero le parole giuste. Perché il traguardo attraversato a Motegi da Marc Marquez, ieri, non è fatto di vernice bianca e asfalto nero o della stoffa a scacchi di una bandiera e nemmeno di numeri raggiunti, statistiche da sventolare e solite riduzioni al gioco del “più e meno” che ridicolizza in banalissimi confronti le storie e le umanità potenti che contengono.
E’ nel rumorosissimo silenzio dell’anima - esattamente in quel circuito stracolmo di curve difficili e bastarde in cui ogni essere umano si confronta con la propria coscienza - che stava per Marc Marquez il traguardo invisibile e decisivo: quello tra l’assolversi e il perdonarsi. Che poi è dove sta per tutti, anche quando ci si chiama Marc Marquez, appunto. Anzi, forse vale soprattutto quando ci si chiama Marc Marquez e nel 2020, alla prima tappa di un mondiale che dopo appena due curve era chiaramente già vinto, si è voluto esagerare. Ignorando pure le avvisaglie del destino e nel nome di una ferocia che sembrava preoccuparsi più delle vittime da sbranare che del soddisfare effettivamente la propria fame, magari coi giusti modi. Magari coi propri tempi. In quel giorno di luglio a Jerez, Marc Marquez ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, fino a doversi accorgere di non essere Dio. E di non poterci nemmeno ambire. L’ha capito presto, l’ha capito a suon di bisturi e paure, l’ha capito anche quando, seduto di fronte a suo nonno, ha implorato la benedizione della persona più importante della sua vita rispetto a quel “voglio provarci ancora. Solo una volta, nonno!”

Sì, Marc Marquez a Motegi ha potuto dire “finalmente sono in pace” e non “sono ancora campione del mondo”, perché proprio mentre la sua moto attraversava il traguardo fatto di simboli a scacchi bianchi e neri, ha sentito di aver attraversato il traguardo che c’è tra l’assolversi e il perdonarsi. Termini simili? No, più contrari che simili. Perdonarsi è gesto radicale. Autentico. Lungo. Doloroso al limite dei limiti umani. Perché è contestualmente il percorso e l’atto con cui si riconosce l’errore. Lo si accoglie. Lo si comprende nella sua portata e, soprattutto, se ne assume il peso. Il perdono di sé nasce dalla verità, ma non quella elaborata: quella cruda, sgraziata, sempre nuda e pure un po’ bestiale. È lacerante. E impone onestà e coraggio. Oltre a quella vulnerabilità che va ammessa. Sempre e anche quando ci si chiama Marc Marquez e la vulnerabilità la si è ignorata, fino a stuprarla, quando non ce ne era proprio bisogno. Quando, come un Icaro con la motocicletta, ci si è sentiti in grado di arrivare dove non si può. E dove non si dovrebbe neanche osare. Marc Marquez avrebbe potuto impazzire. Marc Marquez avrebbe potuto assolversi. E invece no, la forza grande è stata quella di provare a perdonarsi. Sapendo che ci sarebbe voluto tutto il tempo che c’è voluto e con il dubbio che forse sarebbe anche potuto non bastare.
Ignoscere multis, sibi nulli, dicevano i latini. Perdona molti, mai te stesso – una massima che non fa una piega, ma che ricorda anche quanto l’autoperdono sia ciò che di più difficile c’è da conquistare. E a che ca*zo di livello di autentica Pace si arriva quando ci si riesce. Marc Marquez non ha giustificato il suo errore. Lo ha prima ammesso, poi attraversato come si attraversa la colpa e, solo alla fine, lo ha guardato in faccia. Lui, il suo peccato e nessun altro. E da quell’incontro, da quel guardarsi, è uscito trasformato. Non più vittima del senso di colpa, ma individuo rinnovato. Più consapevole. Più integro come uomo anche se tutto spezzato come pilota. Solo così nasce l’amore per sé: da una verità sofferta, ma liberatoria veramente. Di una Libertà che è autentica e definitiva come un “finalmente sono in pace”, al contrario della libertà che è figlia dell’assolversi.

Sì, assolversi è umano, ma resta pur sempre un meccanismo sottilmente vile. Quasi più subdolo che interiore. Non implica il riconoscimento della colpa, ma la sua riformulazione di una diversa “giustizia” personale. Nel caso di Marc Marquez? Quella moto che si poteva guidare solo in quel modo, i medici che hanno sbagliato, la Honda che non l’ha fermato o tutte le motivazioni, anche sacrosante e pure valide, che comunque c’erano. Le famose giustificazioni a cui si finisce quasi sempre per ricorrere per far stare zitta la coscienza. È un modo per alleggerirsi senza attraversare il dolore e senza muovere come primissimo enorme passo dalle tre parole più difficili: io ho sbagliato. Chi si assolve, spesso, non si pone domande: modifica le regole interiori per non sentire più il peso di ciò che ha fatto. Deresponsabilizza se stesso, sposta il baricentro morale altrove. Si convince, in buona fede o meno, che ciò che ha fatto “andava bene così”. Marc Marquez se ne è guardato bene dal dire “andava bene così” e, piuttosto, ha detto a se stesso “voglio la pace” (e magari prima o poi lo dirà anche per un altro grande errore, umano e non sportivo, del suo passato. Sì, questo Marc Marquez non si sarebbe mai messo in mezzo in quel 2015).
Per uno che si chiama Marc Marquez, “la pace” ha un solo sinonimo: vincere. Adesso non più come vince un campione dal talento mostruoso e l’ambizione di un Icaro, ma come vince un essere umano che ha aggiunto a quel talento la consapevolezza che perdonarsi è possibile. Anche se assolversi è molto più facile, con il prezzo che, però, è quasi sempre quello altissimo di chi smette di sentire. O percepire in maniera autentica. In fondo, chi si perdona non dimentica. Non archivia, ma accoglie. E, nel farlo, riscopre la forza più rara e vera. Così vera da far sembrare solo un simbolo un nono titolo mondiale vinto a 32 anni e dopo cinque di inferno.