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Salvate i pirati della MotoGP! Su Liberty Media, Pavese, il futuro del Motomondiale e la stessa medicina per ogni "malato"

Emanuele Pieroni

22 settembre 2025

Un episodio nella sala stampa di Misano e tutti i "piccoli" cambiamenti che anticipano l'odore della ricetta che Liberty Media sta preparando per la nuova MotoGP. Il profumo, per adesso, non è di quelli invitanti e il perchè è scritto nella storia di uno sport che è fatto di distacchi, non di distanze...

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Fabio Di Giannantonio che arriva in sala stampa praticamente per ultimo, dopo una giornata di test, con l’aria sbragata tipica del romanaccio e pure una palese voglia di farsi due chiacchiere dopo una giornata passata a sentire il suono della Desmosedici e le voci (sempre serissime) degli ingegneri della sua squadra e di Ducati. Le solite domande di rito, le solite risposte e, poi, l’insolito fuori programma: il Diggia che si mette a scherzare con un giornalista prima e poi con tutti. Come al bar, insomma, a distanze totalmente annullate e battute magari anche malignette, ma di quelle che non feriscono nessuno. Perché il contesto è quello tipico delle corse in moto e dei contenuti che possono venire fuori tra chi vive raccontando e chi, invece, vive mettendo sul piatto la pelle in nome di una grande passione. E’ successo lunedì scorso, a Misano, dentro una sala stampa che sovrastava un paddock che proprio in quel fine settimana s’era presentato diverso. Con camion di servizio e hospitality di fronte, squadra per squadra, per evitare che i piloti andassero troppo in giro in mezzo alla gente e la Moto2 e la Moto3 relegate da una parte come si faceva qualche secolo fa con gli appestati. Stride? Sì, stride e anche di brutto. Eppure è in questa direzione che la MotoGP della nuova era Liberty Media sta cambiando, con chi tira i fili che sembra voler ignorare anche oltre l’evidenza che i piloti di moto da corsa non c’entrano niente di niente con quelli della Formula1. Sono più vicini per natura. Per estrazione. Per carattere. E di fare gli idoli messi lassù non ci pensano neanche da lontano, sia che si chiamino Fabio Di Giannantonio o anche Marc Marquez.

Tutto questo per dire cosa? Per dire, semplicemente, che ok che il futuro fa sempre un po’ paura, ma l’odore che si comincia a sentire della nuova MotoGP cucinata da Liberty Media è per nulla invitante. Perché non tiene conto, appunto, del fatto che le corse le fanno i piloti e che persino i piloti sono essere umani troppo diversi da loro. Soprattutto tra motorsport e motorsport. Sì, la MotoGP ha bisogno di maggiore visibilità, ma pensare di curare due malati con la stessa medicina, senza una accurata diagnosi, rischia di salvarne uno e mandarne al Creatore un altro.

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Liberty Media, sia inteso, ha tutto il diritto – e sicuramente anche il dovere – di modernizzare, di rendere la MotoGP più attrattiva. Più mediatica. Più presente. Ma senza stuprarla nella sua natura. Senza togliere la polvere, la morca dalle mani di piloti che sono l’evoluzione di ragazzini smanettoni, il sudore, l’adrenalina. Senza costruirgli intorno un muro di distanza che renderebbe questo sport freddo. Inaccessibile. Sterile come è sterile, sul piano umano e delle storie, la Formula1. Come insegnava Cesare Pavese, “ciò che l’uomo cerca negli effetti artistici, come nei sogni, è il riconoscimento del proprio destino”. Ecco, la MotoGP è riconoscimento. È sogno di gente normale che sembra possibile pure per chi normale non è. È un mondo che, però, per sopravvivere nella sua stessa sostanza ha bisogno di non smettere di essere vero. Rendere il Motomondiale un circo elitaristicamente esclusivo, fatto solo di luci, Netflix e hospitality inavvicinabili, sarebbe come chiudere la porta in faccia a un mare di storie fatte di padri coi furgoni, figli coi sogni e fatiche fatte a volte pure di espedienti. E spegnere la fiamma di uno sport che, per sua natura, corre con il cuore. I muscoli. I nervi. Prima che con i numeri dei cronometri.

Sì, Liberty Media ha rivoluzionato la Formula 1 trasformandola in un fenomeno globale, patinato, spettacolare, a tratti cinematografico. Un successo innegabile, certo, ma adesso che lo stesso gruppo ha messo le mani sulla MotoGP, la domanda è una sola: è davvero la stessa terapia che serve anche a questo malato? Il rischio, enorme, è quello di voler curare con lo stesso farmaco due patologie completamente diverse, con la presunzione di non aver bisogno di alcuna diagnosi prima. L’errore più grande che si possa fare – nel motorsport come nella vita – è pensare che una sola cura funzioni per tutti. In medicina, lo sanno bene, tutto parte dalla diagnosi: non puoi trattare un’influenza come fosse una polmonite, né una frattura come fosse una slogatura. E allora prima di “curare” la MotoGP, occorre capirla. Diagnosticarla. Studiarla. Analizzarne l’anima. E quell’anima, a differenza di quella della moderna Formula1, ha un volto più umano. Più reale.

Valentino Rossi
Valentino Rossi ha saputo rendersi inarrivabile, mai inavvicinabile

La vera differenza tra i due mondi non è nella tecnologia, nei circuiti o nei numeri degli spettatori. È nei piloti. Oggi in Formula 1 i protagonisti sono ragazzi cresciuti in accademie super strutturate, figli di famiglie molto ricche, managerizzate da quando avevano sei anni. Bambini programmati per vincere. Allenati. Curati. Protetti. Spinti da un ecosistema sociale che li ha proiettati verso l’élite. Non c’è nulla di sbagliato, sia chiaro. Ma è un altro pianeta. Il pilota di Formula 1 (ovviamente della Formula1 moderna e non di quella di una volta) è distante per nascita. Per cultura. Per storia personale. Vive in una bolla da sempre, parla una lingua sociale diversa.

Il pilota di MotoGP, invece, è un’altra cosa. Viene spesso da famiglie normali, che hanno fatto sacrifici per comprare la prima minimoto, per viaggiare con un furgone vecchio verso qualche pista sperduta. E’ storia di padri che racimolavano carburatori e gomme solo perché vedevano quanto forte fosse il sogno negli occhi dei loro figli. E’ storia di mamme che si organizzavano per essere coccole e chiavi inglesi, piatti pronti da buttare sul camper e condividerle su una tavolata grande dove nessuno era più avversario di nessuno, ma si era solo genitori di ragazzini col sogno matto di correre in moto. Sì, il pilota di MotoGP, anche quello di adesso e a parte qualche rara storia differente, ha imparato presto la fatica. La paura. Il rischio. Non ha studiato in college per futuri campioni inavvicinabili, ma in scuole normali, da cui assentarsi il giovedì e in cui tornare il lunedi con il solito insegnante che se ne frega di quanto vai forte e, piuttosto, ti insulta per quanto sei somaro.

Marc Marquez e Giacomo Agostini a Valencia 2022
La storia delle corse in moto è anche una storia di abbracci

Il pilota di MotoGP, anche di questa moderna MotoGP, è un ragazzino che è cresciuto sognando, ma con le ginocchia sbucciate dietro le tutine rovinate e comprate usate, il cuore profumato di benzina e lo sguardo paraculo di chi allo sguardo che si abbassa preferirà sempre un anteriore che si alza. Il pilota di MotoGP è ancora uno di noi. Che arriva in sala stampa e si mette lì a cazzeggiare con quello del Corriere di Romagna, dicendosele pure, se serve, ma mettendo in chiaro sin da subito che sul piedistallo non ci vuole stare nessuno. Sì, la MotoGP è ancora un mondo di gente forse un po’ matto. Forse incosciente. Forse più pronto all’espediente che alle programmazioni, ma che ha comunque una gran fame di arrivare. E’ tutto meravigliosamente più vero. Con il pilota di MotoGP che è, di fatto, il fratello maggiore che prende la strada più pericolosa per dimostrare che si può arrivare in alto anche partendo da un ISEE triste. In fondo, il pilota di moto non si è mai allontanato dal pubblico. Neanche quando attraversa come un missile il paddock sopra a improponibili scooter elettrici, rischiando di investire chiunque, ma senza investire nessuno. Non è mai diventato un personaggio da copertina patinata, ma è rimasto un guasconaccio che ha capito quanto lavoro bisogna mettere sopra, sotto, dentro e intorno al talento. Con gli occhi pieni di fame e la voce generosa di emozioni e strafaclioni.

E’ per questo che trasformare la MotoGP in una nuova Formula 1 sarebbe un peccato mortale. L’élite funziona per la F1, che da sempre, o di sicuro nell’ultimo paio di decenni, è stata un club ristretto. Esclusivo. Aristocratico. Ma la MotoGP ha sempre avuto un DNA popolare. Rude. Diretto. Il pubblico ama i suoi piloti perché li sente vicini, perché li riconosce. Perché si mettono seduti in sala stampa e, dopo le cose serie, si prendono pure il tempo per dire le cazzate. Perché le loro storie assomigliano a quelle della gente vera. Se li trasformi in star irraggiungibili, li perdi. E, insieme a loro, perdi anche il senso stesso di questo sport.

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