Aldo Drudi è il direttore artistico del motomondiale. Colora, inventa, immagina. Ha disegnato il casco di Graziano Rossi e poi non ha più smesso. Fa quelli di Valentino da vent’anni, ma non si ferma alle corse. Disegna la velocità ogni volta che può. Quando gli chiedi cosa sogna di fare, ti dice quello che ha fatto. E parla delle discese in bici con le carte da briscola nella forcella, perché se sei romagnolo è così che deve andare. E poi le persone, i piloti, le moto, i caschi. Aldo Drudi è un uomo che si stende sull’asfalto del circuito e lo sente quasi parlare. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare l'uomo, il colore e tutto quello che c’è intorno.
Non volevamo farti una domanda sul casco di Valentino per il Mugello. Però eccola, inevitabile: come è nata l'idea?
“È un casco simpatico che definirei surreale. A volte delle idee che abbiamo proposto, alternative ad alcuni dei caschi che avete visto, vengono scartate e poi ritornano al momento giusto. Come quella del Viagra. Lo avevamo pronto da qualche stagione, Vale non è proprio di primo pelo (ride). Però quando è stata annunciata la famosa doppia di Misano quello è tornato ad essere il casco giusto. Il casco di Valentino per Mugello 2021 è stata un’idea di Stefano, un ragazzo che lavora con me da tanti anni”.
Sei il direttore artistico del motomondiale, e il lavoro che hai fatto a Misano c’è solo lì.
“Devo dire che la famiglia Colaiacovo, proprietaria del circuito, ha creduto tanto in questo progetto. Perché è ben diverso dal decorare degli spazi di fuga come abbiamo visto fare in altre piste, con grafiche abbastanza semplici e in linea con il tracciato. Abbiamo scelto linee che vanno un po’ contromano. Volevo che le inquadrature sul pilota restituissero un ritmo particolare di righe e colori. Un’allegoria grafica sull’immagine del pilota”.
Come l’avete fatto?
“Abbiamo dovuto proiettare di notte delle immagini da un braccio di trenta metri, come si faceva una volta. Si proiettava con una pellicola le linee, che venivano ripassate a mano, e poi si andava a colorare sulle grandi pareti. Abbiamo fatto così. Ed è stata un’esperienza clamorosa, perché poi nella pista di notte, o la sera all’imbrunire col tramonto…”
Una bella emozione.
“Si. In una di quelle notti, di quelle serate passate lì, sotto un cielo stellato bellissimo, ero stanco morto e mi sono steso sull’asfalto. Era ancora caldo dal sole del pomeriggio, ed era come se la pista rilasciasse una sorta di energia caricata da queste macchine e moto che passano incessantemente sull’asfalto. Stendersi sulle piste non è mai bello, è un’esperienza che conosco bene. Quella volta però è stato magico. Tra i colori, il caldo”.
Cosa sogna di fare Aldo Drudi?
“Questo sport meraviglioso mi ha dato la possibilità di fare cose per me incredibili. Sai, sono quello che fa i caschi. Non è solo Valentino, ho iniziato con suo padre, e continuerò sempre con questo lavoro splendido, perché in qualche modo il casco è la faccia del pilota. Con quel passaporto ho fatto tante altre cose, ho disegnato linee d’abbigliamento, siamo responsabili dell’immagine di diversi team. E abbiamo lavorato per la Coppa America, sia per New Zealand che Luna Rossa. Poi col ciclismo, per il Giro d’Italia abbiamo realizzato il trofeo che ad ogni fine tappa viene dato al vincitore. Di solito un casco è un casco, ma è diventato un trofeo. Poi ci siamo mossi altrove, abbiamo lavorato per Aeronautica Militare, o per la Thok di Livio Suppo. Ho disegnato barche fino a 55 piedi, tutte in carbonio, si chiamano RIB. Ora mi stanno chiedendo di fare cose d’arredamento. Forse adesso lavoreremo sulla livrea di un’auto prestigiosissima. Non da corsa, un’operazione di grafica realizzata su di un’automobile. Ma lo faremo a nostro modo. Mi piacerebbe esporre i miei lavori sul motomondiale in un grande museo d’arte con un progetto che mi balena in testa da tanto tempo, un po’ come abbiamo già fatto al Museo della Scienza e della Tecnologia a Milano. E poi un’altra cosa che non c’entra col motociclismo, ma che è la mia visione del futuro”.
E come lo immagini, il futuro?
“Sai, ora siamo tutti concentrati a tornare dove eravamo prima. Questi grandi slogan del torniamo alla normalità però, a me fanno diventare matto. È stata una tragedia, tante persone hanno perso la vita. C’è gente che lavora senza sosta negli ospedali e tutto questo impegno non sta producendo quella che, secondo me, è la cosa più importante: la visione futura. Perché altrimenti ai giovani resterà qualcosa di veramente disastrato. Mi interessano poco i discorsi dei politici in televisione che promettono di tornare alla normalità. Eravamo messi male, volete farci tornare così? Sai, io conto poco, però chi usa il colore e la fantasia a volte si può permettere di offrire delle suggestioni senza rischiare di dire puttanate. E mi piacerebbe farlo, stiamo lavorando ad un’idea importante in questo senso”.
Come sei arrivato alle corse?
“Eh, sono romagnolo. A noi interessa tutto quello che si muove sulle ruote. La velocità cambia tutto. Arrivi ad un altro livello, tipo Stargate. Sembrano banalità, ma la verità è proprio quella. Quando cominci ad andare a trenta, quaranta all’ora in bici ti sembra di volare. Allora lì si apre un nuovo mondo e si ricerca sempre una velocità maggiore. Ho avuto fortuna, perché sono di Cattolica e noi siamo gente che va in discesa. Adesso per esempio lavoro a Riccione, ma lì di discesa non ce n’è. A Gabicce c’è la Panoramica, la discesa. E noi ci buttavamo giù da lì con le biciclette e le carte da briscola attaccate alla forcella. Eravamo tutti campioni, io ero Barry Sheene”.
Tutti col sogno di correre.
“Qualcuno della mia generazione ce l’ha fatta. Ad esempio il Reggio (Loris Reggiani, ndr.) che però lavorava in un’officina… Fece uno di quei trofei con moto quasi di serie, quindi potevi andare a correre con moto acquistabili con relativa facilità. Io e Guido Cecchini, un mio caro amico che è stato capotecnico di Aoyama nell’ultimo mondiale della 250, truccavamo il motorino. Anzi, lo truccava lui, quel gran genio del mio amico. Facevamo le corse con i motorini che preparava lui, ma erano gare pirata. Quando facevano le strade noi eravamo lì a fare le corse. Noi contro i gabiccesi, contro i pesaresi… Però era tutta roba pirata e per correre bisognava avere la moto, che mio padre non mi comprò mai. Mia mamma, dopo qualcosa come trent’anni, mi disse che se avessi insistito col babbo me l’avrebbe comprata. Cazzo, adesso me lo dici? Una volta quando il babbo diceva no era no, non potevi fare tante discussioni”.
La gestione del colore mi avvicina ad un senso effimero di libertà, coi colori fai quel cazzo che vuoi
“Mio fratello Sandro, che era un altro grande appassionato di moto e assieme a mio padre mi portava a vedere le corse, conobbe Graziano Rossi perché andava nella discoteca di mio fratello. Graziano ci andava perché c’era la Stefania, la mamma di Vale, lui andava lì a provarci… Mio fratello lo sponsorizzò perché qualcuno gli disse che andava forte: gli dava 50 mila lire a gara e Graziano correva con questa scritta Scorpio Club sulle maniche, che gli avevo intagliato con le forbici. Da lì l’ho conosciuto e siamo diventati amici, ci andavamo ad allenare in spiaggia con delle moto da enduro e la gomma posteriore slick. Lui prendeva le slick usate e le montava su di una Honda XL 500… Se lo fai adesso ti sparano, ma noi in inverno e primavera andavamo lì sul bagnasciuga a dare del gas. Graziano aveva avuto questa intuizione, sfruttavamo la sabbia, umida ma compatta, per andare di traverso. Poi lo fece anche Giuseppe Andreani, che è fu campione di motocross. Lui era più tecnico, noi lo facevamo per divertirci. Ti dico la verità, buttavamo dentro anche la quarta, di traverso. Terza, e poi appoggiavamo la quarta. Il guaio era un altro… Adesso vai a girare al Ranch e ci vai con la tuta, bello tirato. Noi andavamo in maglietta e jeans, stivali da cross e casco. Un paio di guanti forse, se li rimediavi. E se scivolavi era un bel problema, perché c’erano gusci di cozze, vongole e chissà che altro, praticamente delle piccole lame! Ho dato delle grattugiate per terra che me le ricordo ancora. E ogni volta che ci penso sorrido”.
E il disegno?
“Dopo le medie bisognava scegliere che scuola fare, e io non ho mai avuto una gran voglia di studiare. Però sapevo disegnare, me n’ero accorto e mi piaceva, ci passavo delle ore. E i miei, forse più lungimiranti di me, mi lasciarono la possibilità di iscrivermi alla scuola d’arte. Ai tempi era una scuola poco frequentata, si diceva che ci andassero quelli che non avevano voglia di fare una mazza”.
Beh dai, lo dicono ancora.
“Anche adesso? (ride). Poi c’era un’altra cosa bella alla scuola d’arte, c’erano un sacco di donne. Sai, un po’ artiste. Io alle medie ancora avevo i calzoni corti. Al primo giorno di superiori indossai i calzoni lunghi e feci per andare a scuola, ma erano tutti fuori. Era la seconda ondata dopo il ’68 e noi c’eravamo pienamente dentro. Io arrivavo dalle scuole medie delle suore di San Giovanni… A Pesaro, con i disordini davanti alla scuola dal primo giorno, mi sembrò il paradiso terrestre”.
Ce l’hai ancora quel primo casco?
“Lo mandai all’AGV per metterlo a posto, perché nel tempo si era un po’ rovinato. E non l’ho mai più riavuto, erano i tempi di Gino Amisano, quello non lo ribecco più. Era particolare, mi ricordo che la Bell aveva fatto dei caschi con una barra centrale al centro della visiera, ma dato che la messa a fuoco degli occhi è molto più lontana non ti dà fastidio. Penso lo usasse Emerson Fittipaldi. Lo feci anche io in cantiere, da Giocondo Mariani, che faceva la doppia vita da pilota come Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Modificammo il mio AGV con la vetroresina… Madonna, come me lo ricordo! Avevo messo Willie il Coyote al posto del Paperino di Barry Sheene”.
C’era anche il buco per la sigaretta?
“No dai, non ho mai fumato (ride)”.
Cosa ti ispira di più nei tuoi lavori?
“Io sono di una generazione che era obbligata ad usare la propria memoria e il proprio cervello. Ora se ad una cena fai riferimento a qualcosa, con tutte le probabilità qualcuno prenderà il telefono e si andrà a vedere la foto. Bello, ma in tre secondi te ne sei dimenticato. Invece io mi ricordo quando ci arrampicavamo al muro di Misano, c’era un pilota finlandese che veniva ad allenarsi con la 500. E impennava, erano le prime impennate. Lui aveva questo casco rosso, ma fluo. Uno dei primi. Cose che ho in testa. E ogni volta che mi approccio ad un nuovo lavoro - parliamo di caschi in questo caso - è come se andassi in questo gigantesco magazzino a ripescare qualcosa nelle scansie. E magicamente si crea qualcosa, che sia per i piloti o per le livree. Ho un’antica memoria visiva”.
C’è chi dice che guardare la roba su internet sia come mangiare al fast-food, ti riempie subito ma poi rimani insoddisfatto.
“È un argomento un po’ difficile. Ma credo che ripudiare la tecnologia sia impossibile ed anacronistico. Però penso che in questo momento l’impennata esponenziale della tecnologia che in alcuni casi (secondo me pochi) è sacrosanta, spesso crea una confusione spaventosa. Non siamo abituati a gestirla, questa cosa. E questa fruizione selvaggia secondo me sta creando dei grossi danni. Non è un discorso da vecchio, io ho un ufficio grafico in cui abbiamo i programmi migliori al mondo per fare questo lavoro. E riconosco che il computer è fondamentale, ma lo vorrei usare come si usa un martello per piantare un chiodo. Se non ce la fai con le mani, ecco. Sulla mia scrivania non ho il computer, e mi sono permesso il lusso di non imparare come si usa. Uso a malapena il telefonino. Ma non voglio dire che sono un gallo per questo, non è vero. Mi piacerebbe saperlo fare, ma per fortuna ci sono i ragazzi, che sono con me da anni, e lavoriamo assieme”.
Cos’hai sulla scrivania?
“Davanti a me ho una serie di pennarelli fluo e un mucchio di matite che quando si consumano metto da parte, così rifaccio le punte tutte assieme. E poi ho un bel barattolone di colori a tempera, che ho usato anche poco tempo fa sul casco speciale di Valentino Rossi per il Mugello, così come in quello dei test dell’anno scorso. Ho anche comperato 140 pennarelli Pantone, sono meravigliosi. Ogni tanto li apro, li guardo e sai... Mi emoziono. La gestione del colore viene da lì, da quei momenti. Credo di saper fare poche cose nella vita, ma la gestione del colore mi affascina e mi piace molto. È una cosa che mi avvicina ad un senso effimero di libertà. Coi colori (ride) fai quel cazzo che vuoi".
E il tratto?
“Nel tempo la tecnica è cambiata molto. Una volta si lavorava con grande precisione, con penne particolari e chine che ti permettevano di fare segni perfetti. Poi con l’età le cose cambiano… E il computer è più bravo di un umano a pulire le linee Io mi diverto molto di più a disegnare cose a mano con approssimazione, tra virgolette. Il lavoro che sto facendo ora,, per esempio è completamente fatto a mano e disegnato a mano. Poi con il computer facciamo qualche ritocco, ma tengo l’originale qui vicino a me come se fosse una banconota rara”.
Racconta di un pilota che ti ha lasciato un segno.
“Ne dico uno che non è ancora famosissimo ma che seguo per mille motivi. Gli altri sono tutti personaggi affermati con cui abbiamo la fortuna di lavorare. Ma c’è questo ragazzo che sta vivendo esperienze molto forti, a cui tengo particolarmente. Mattia Casadei, pilota del Team Sic58 Squadra Corse nella MotoE. Un ragazzo d’oro, lui e alla sua famiglia sono persone d’oro. Non vede l’ora di poter mettere il culo su di una moto termica nel mondiale. Spero che qualcuno si accorga di lui, sta facendo un grande campionato”.
Chiudiamo: cos’è per te il Mugello?
“Te la metto giù dal punto di vista grafico. Capita che qualcuno mi chieda di andare assieme al Mugello, un amico magari. E io comincio a raccontare, “fai caso a questo, a quell’altro”. Tralasciando le grandi finezze di guida dei piloti, che magari sono apprezzate da chi un po’ ne mastica, mi piaceva portare questi amici sulla stradina che c’è a lato dello schieramento, sotto la tribuna. Prima del via stavamo dietro lo schieramento. Ed è tutto in quell’attimo, quando i tecnici lasciano soli i piloti prima del giro d’allineamento. Tutte quelle menti, tutti quei ragazzi, sono concentrati su di una linea diversa per tutti che si va a congiungere nell’unica traiettoria utile all’ingresso della San Donato. La gente cambiava faccia sentendo la tensione. Tutta quell’energia, quell’attenzione, l’emozione e il cuore che batte. Pensa a quanta vita c’è in quell’attimo. Quando scatta il semaforo si azzera tutto. Ma prima è un’altra cosa. Ci sono sogni, ambizioni, problemi, paure. Se hai un minimo di sensibilità lo senti, si affetta con il coltello. Poi da lì la strada sale, non vedi la prima curva quando parti. Ed è un po’ la metafora della vita, finalmente affronti la prima curva, quella che ti mette tanta agitazione. E un attimo dopo beh, capisci che non hai ancora fatto un cazzo, perché poi c’è tutta la gara”.
E la devi pure rifare, quella curva…
“Qui dopo andiamo su altri argomenti (ride). Questo sport qui è meraviglioso, non sono certo dei pazzi che girano in tondo o degli amanti del rischio. Sono amanti della vita. Siamo, noi delle moto, amanti della vita”.