Il coraggio di fermarsi. Respirare, prendere coscienza che il ciclo è finito, prima dal punto di vista umano, poi tecnico. E quindi, dimettersi. A quanto pare Roberto Mancini finalmente ha avuto il coraggio di farlo. Si era perso alla guida della Nazionale italiana e non certo solo per il gol quasi allo scadere di Joselu che a giugno ha consegnato la finale della Nations League alla Spagna. Non è certamente un torneo messo in piedi dalla Fifa e che non piace a nessuno che spinge verso questo tipo di valutazioni. Nella flash interview concessa alla Rai al termine della gara perduta con gli spagnoli, il ct azzurro ha ammesso che l’Italia si è snaturata, giocando di rimessa, accettando il possesso palla spagnolo.
Due anni fa, Mancini non avrebbe fatto questo discorso. Avanti per la sua strada, quella del gioco, della qualità, dei movimenti, della compattezza. Idee e visione. Ora no. In mezzo, c’è stato il trionfo inatteso agli Europei, il tetto d’Europa per una rosa con un paio di quasi fuoriclasse, tanti buoni calciatori ma decisamente inferiore ad altre fuoriserie.
Mancio è stato eroe, architetto, gestore, è stato un faro, una guida. Assieme a Gianluca Vialli, ha costruito una Nazionale mai vista così unita: così solo nella fase finale dei Mondiali 2006.
Poi, dopo la sbornia, dopo il picco, è iniziata la lunga discesa che ha portato al baratro dell’assenza ai Mondiali in Qatar e alla situazione attuale, in cui non si vede più una luce. Ha pesato tantissimo la mancata qualificazione ai Mondiali: la partita con la Macedonia del Nord è stato uno snodo. Si è intrapresa la parte sbagliata.
Senza più un’idea di gioco, con spazio ad alcuni del vecchio corso (Bonucci, Immobile) mentre lo stesso Mancio rimproverava i club per lo spazio esiguo concesso ai giovani italiani, che lui per primo ha saputo convocare, visionare da vicino, anche senza alcuna esperienza in Serie A. È accaduto con Zaniolo, si è ripetuto con Pafundi. Anche contro la Spagna a un certo punto si è trovato in attacco con Zaniolo (tornato da titolare dopo la lunga assenza per motivi disciplinari) e Chiesa: nessuna traccia di Retegui, oriundo che lui ha voluto, giustamente difeso e che ricompensato con due reti in altrettante presenze, nelle gare di qualificazione per Euro 2024, a marzo.
Mancini appariva confuso. Poco convinto. Il suo sguardo volava via. Non si vedeva più quell’unità, quella traccia così evidente sino a Euro 2020. La sensazione è che anche la morte di Vialli abbia parecchio inciso sull’entusiasmo e sulla determinazione del suo storico gemello del gol, che per lui era benzina emotiva. Vialli era uno dei motivi per costruire il sogno in Nazionale, quella Nazionale in realtà avara di soddisfazioni per entrambi, mentre scrivevano calcio alla Sampdoria.
Si era persa quella feroce motivazione a riportare in vetta l’Italia, a scrivere qualche altro miracolo, perché Mancini ha vinto scrivendo un miracolo calcistico. Forse gli mancava anche allenare tutti i giorni, si sentiva poco capito da un movimento che finge interesse per la Nazionale per poi ripiegare sempre di più su stranieri a basso costo dall’estero.
Le motivazioni sono tutto o quasi, quando si è commissario tecnico della nazionale e si lavora con il gruppo in quattro o cinque circostanze annuali. Quindi, prima di rischiare di rovinare un percorso in ogni caso straordinario, è stato meglio fermarsi e restituire l’incarico. Il coraggio non gli è mai mancato. E nemmeno stavolta.