Eravamo abituati agli “spiaze” di Simone Inzaghi. Per noi interisti il linguaggio del tecnico piacentino era diventato molto più che un qualcosa di familiare. Ma il suo addio improvviso ci ha inevitabilmente raffreddati. C’è chi ha mostrato il dispiacere con rabbia, chi con il silenzio, chi esprimendo pubblica solidarietà. Sta di fatto che a Simone il popolo nerazzurro si era appassionato. Accettare pronti via un nuovo allenatore non è così facile, soprattutto se si tratta di un uomo come Chivu, che sappiamo benissimo non essere stata la prima scelta della società. Protagonista del triplete del 2010, lo abbiamo comunque accolto con un affetto carico di nostalgia misto però a uno scetticismo legato ai risultati. Ed è esattamente con questo spirito che ho visto la sua prima conferenza stampa. La voglia di sentirlo parlare c’era, ma avevo previsto un epilogo per me scontato che però, per fortuna, non si è rivelato tale. Pensavo che le sue dichiarazioni sarebbero state piatte, monocorde, che non si sbilanciasse proprio perché è un allenatore alle prime armi, che arriva dal Parma, che prende un posto che brucia. Un posto in cui il rischio di farsi male è nettamente più alto rispetto ai benefici.

Ecco, non mi aspettavo un Mourinho piuttosto che uno Spalletti. Invece mi ha stupito. Non tanto per ciò che ha detto, ma per la capacità di lanciare immediatamente un proprio stile. Prima di tutto un inglese sublime, non solo nella pronuncia, ma anche nella scioltezza e nel vocabolario. Poi nell'assenza di prostituzione intellettuale (cit) davanti alle domande scomode di alcuni giornalisti. Infine, la spiegazione al presidente del concetto di interismo. Ha parlato del suo predecessore ammettendo senza alcuna remora di averlo sentito dopo la sconfitta dell’Inter in finale di Champions, prima che lasciasse la panchina milanese, ma non dopo, a differenza di quanto accaduto con José: “Con Simone ho sempre avuto buoni rapporti quando allenavo le giovanili, l’ho sentito quando ho saputo che avrebbe lasciato l’Inter e poi da quel momento non l’ho più sentito”. Poi ha da subito protetto i suoi ragazzi, soprattutto quando gli hanno chiesto come pensasse di utilizzare Mkhitaryan vista l’età: “Non conta l'età ma le qualità umane. La carta d'identità nel calcio non conta. Non è giusto parlare dell'età di Mkhitaryan perché quello che ha mostrato anche in allenamento non si può discutere. Spero che trovi la stessa energia, per me conta questo. Quello che è importante è lavorare duro per la squadra e i tifosi e la società”.

Ma quale può essere davvero l'x Factor di Chivu sulla nostra panchina? “Dal punto di vista umano tutto quello che ho. Il rispetto, la riconoscenza, il carattere, l'interismo. Questa maglia mi è rimasta dentro. Dal punto di vista professionale dovete decidere voi. Umanamente darò tutto quello che ho”. Umiltà da non confondere con la sottomissione. Riconoscenza ma piena consapevolezza della difficoltà di un arduo progetto che ha al centro calciatori ancora feriti. Determinazione di chi vuole onorare una bandiera per non essere ricordato come uno dei tanti nel post Inzaghi a non avercela fatta. Ecco, nel timore generale di interisti scottati dalla fine di un percorso durato quattro anni, possiamo individuare in quella conferenza stampa la vera chiave di volta nel rapporto tra lui e i tifosi. Ma anche tra lui e la società. Perché ha chiarito di non avere alcuna intenzione di essere uno qualunque, di aver bisogno di supporto senza lamentarsi (almeno per ora), e che non è certo il tecnico giusto per essere addomesticato da un club che punta in alto ed è abituato a nomi altisonanti.