Di Luciano Moggi, quando era in auge, quando tutti avevano i suoi numeri di telefono (ce li hanno anche adesso), quando facevano tutti a gara a fargli da scendiletto, si diceva che sarebbe riuscito a vendere frigoriferi agli eschimesi. Ci riesce ancora e lo ha fatto anche nella recente assemblea degli azionisti della Juventus, consegnando ad Andrea Agnelli l’ormai famigerato cofanetto con la chiavetta contenente “le verità nascoste” di Calciopoli: ecco, in buona sostanza, ha venduto frigoriferi agli eschimesi perché di nascosto, in quella chiavetta, non c’era nulla che non fosse già conosciuto e scritto in decine di libri, anche di diverso orientamento. Intercettazioni comprese, insomma, davvero niente di nuovo. Ma all’amo hanno abboccato tutti. Radiato dal calcio, radiatissimo, Moggi è un uomo libero al quale nessuno ha in realtà intenzione di togliere la parola: va in tv e in radio – certo, non più in quelle che contano – a intervalli irregolari, firma con una certa frequenza su Libero, e in quei contesti come altrove narra sempre le sue verità, che poi sono le stesse che ha raccontato nel suo show all’assemblea di martedì (Moggi ha una manciata di quote del club, ne è un piccolo azionista e può dunque intervenire; resta tuttavia da valutare quanto se ne possa essere giovata la Juventus; verosimilmente ben poco), un’istrioneria considerabile come eccezionale solo da chi abbia dormito per gli ultimi quindici anni. In un contesto tribale – nel senso di estremamente parziale, davanti ad azionisti-tifosi, per gran parte – ha strappato più di un applauso, perché in casa bianconera la ferita non si è mai rimarginata ed esiste una certa deriva complottista che non si è mai rassegnata a plurime sentenze, mai assolutorie.
Anzi, quasi mai, perché anche se non cambia la sostanza, in realtà Moggi in qualche processo l’assoluzione l’ha ottenuta, dal ”sequestro” di Paparesta “chiuso dentro lo spogliatoio” secondo un’intercettazione, circostanza che il tribunale di Reggio Calabria dimostrò essere una boutade mai avvenuta (ed è in effetti incredibile che se ne sia dovuto occupare un tribunale), persino un’assoluzione (in primo grado e confermata in appello) dopo una querela per diffamazione intentata dalla famiglia di Giacinto Facchetti e nella quale invero le motivazioni del giudice erano ben più interessanti rispetto al contenuto della chiavetta.
Caso che non verrà mai riaperto, perché la Figc per prima non ha intenzione di farlo ben sapendo che il processo sportivo fu quantomeno anomalo e tutt’altro che completo, e del resto le intercettazioni nella chiavetta di Moggi sono note da più di un decennio. Ma come l’ex dg della Juventus non si rassegnerà mai al modo in cui tutto si è concluso (e ciò che lo infastidisce di più è l’irrimediabile sputtanamento, al cospetto della santificazione di altri protagonisti), allo stesso modo la Federcalcio non ha mai fatto i conti con un processo lacunoso, limitandosi a difendere a spada tratta una giustizia federale spesso più che discutibile. Non saranno dunque le voci di Meani e Galliani, di Carraro e Bergamo a cambiare alcunché, non il “per carità che non favorisca la Juve”, il consiglio “se ti viene un dubbio, pensa a chi sta dietro”, la battuta di Meani a Rodomonti sul “presidente che manda anche te a fare il trapianto di capelli in Svizzera”; anche perché appunto sono agli atti da una dozzina d’anni e questo casomai non è un problema di verità nascoste, quanto casomai di scelte relative all’impianto accusatorio. Per questo l’ultima sceneggiata sul palco lascia il tempo che trova; quel suo intervento, alla fine, per coerenza non è diverso da quello del quasi coetaneo Berlusconi (classe 1936 l’ex premier, 1937 Moggi) che aizza i calciatori del Monza promettendo loro “un pullman di troie” in caso di vittorie importanti: ce l’hanno sempre in testa, uno il sesso femminile e l’altro Calciopoli, cos’altro vi sareste aspettati da loro?