C’è una differenza fra un’invasione di campo e una visita surreale nel cuore dell’iperrealtà, e Jannik Sinner l’ha sperimentata a Riyadh, sotto l’occhio onnivoro di Netflix, durante il Six Kings Slam, torneo-laboratorio-esibizione in cui il tennis si traveste da serie televisiva e il denaro da sport.
Dopo il match di Jannik contro Tsitsipas, mentre analisti e conduttori commentano in piedi in campo, un ragazzo in tunica bianca, senza fretta, scavalca il limite, attraversa il tappeto sacro della performance, raggiunge Sinner e gli chiede, con alto tasso di “lost in translation”, qualche gesto e la sguaiata innocenza di un turista in pellegrinaggio, la giacca Nike. Non un autografo, non un selfie: un indumento, un frammento del mito. Sinner resta perplesso, gentile, quasi spaesato. La sicurezza? Assente. Solo dopo vari secondi un addetto si materializza e abbranca il fan, facendolo sparire dallo sfondo dell’inquadratura.

In un sistema teoricamente chiuso e asettico come quello dell’intrattenimento sportivo teletrasportato in Arabia Saudita, ecco l’errore che si trasforma in spettacolo (non è chiaro quanto gradito agli organizzatori o ai giocatori). Il tennis, disciplina dell’ordine, trapiantato per quattro giorni nel deserto si lascia violare da una breccia simbolica oltre che fisica.
Tredici milioni e mezzo di dollari danzano intorno a questa scenografia (o messinscena?): 1,5 milioni solo per partecipare, 6 milioni al vincitore (di tre partite al meglio dei tre set). È il torneo più ricco della storia della racchetta, un trionfo di branding e diplomazia (e, sussurrano i maligni, sportwashing?). Ogni gesto è previsto, ogni sorriso calibrato. Eppure, nell’arena climatizzata di Riyadh, basta un passo di troppo a ricordare che la realtà non firma contratti.

C’è una fragilità nuova nel modo in cui Sinner accoglie l’invasore. Non c’è paura, non c’è rabbia. Solo un pudore disarmante. È come se il campione altoatesino, icona di compostezza, sapesse che resistere con violenza o fastidio che sarebbero fuori dal (suo) copione. Allora stringe la mano, dialoga, mantiene la grazia. O forse, davvero, non aveva capito o ci ha messo un po’ a capire, vista la totale decontestualizzazione del gesto, una falla da sagra di provincia più che da evento mondiale più pompato dell’anno.

Già allo Us Open Jannik era stato “vittima” di un’interazione improbabile con un fan, che sporgendosi dalle tribune aveva tentato di frugargli nel borsone. Ma a New York, terra di illusioni ma anche di crimine, un addetto alla sicurezza era subito intervenuto. In Arabia è andata diversamente. L’episodio fa sorridere solo chi non ha memoria. Perché il tennis conosce il sangue: Monica Seles, Amburgo, 1993. Un fan attraversò il campo e la pugnalò. Da allora, ogni invasione è un fantasma che ritorna. Che a Riyadh, tra i tappeti d’oro e le stanze d’hotel da mille e una notte, la security abbia deciso di concedersi un sonnellino è grottesco. Ma coerente. O forse, tolti quei 13.5 milioni spartiti tra Sinner, Alcaraz, Djokovic, Fritz, Zverev e Tsitsipas, gli spiccioli per gli addetti alla sorveglianza erano finiti?

