È uno sport complicato, il tennis. Ti guarda in faccia senza chiederti come stai e pretende da te risposte che non sempre sei in grado di fornire. Affermarsi e, soprattutto, rimanere al top in modo continuativo, galleggiare tra i propri stati di forma, cercando di mantenere un livello medio che ti permetta di competere ogni settimana contro i migliori al mondo, quando sei molto giovane, è veramente difficile. Lo sanno bene Holger Rune e Carlos Alcaraz, entrambi classe 2003, che seppur in momenti diversi delle loro carriere, stanno affrontando un periodo complicatissimo, proprio mentre il loro rivale del presente e del futuro, Jannik Sinner, ha vinto il suo primo slam e sta giocando il miglior tennis della sua vita.
Concentrandoci nello specifico su Rune, è notizia di qualche giorno fa la separazione dai due coach che lo hanno seguito in questi (pochi) mesi, Severin Luthi (storico allenatore di Federer) e Boris Becker; la motivazione è stata la stessa, nessuno dei due poteva seguire il danese per il numero di settimane richiesto dal giocatore. Questi due però, sono stati solamente gli ultimi, di una serie di cambiamenti avvenuti nel coaching staff del danese nei recenti 12 mesi, viste anche le separazioni con i suoi due allenatori storici, Patrick Mouratoglou e Patrick Christensen (con cui collaborava da 15 anni). Formare la giusta squadra al primo colpo, dopo tanti anni con lo stesso allenatore, come detto dallo stesso Rune, è molto difficile, tutte queste rivoluzioni in così poco tempo però, fanno pensare a un’instabilità del giocatore dal punto di vista del lavoro quotidiano, con, forse una chiara idea di dove voglia arrivare, senza sapere però come fare per arrivarci.
I risultati parlano chiaro, dopo una buona stagione sulla terra nel 2023, con un trofeo vinto a Monaco, e due finali raggiunte nei master 1000 di Montecarlo e Roma (seppur perse), il rendimento del danese, complici anche diversi infortuni, è calato a picco, con una serie di sconfitte al primo o secondo turno preoccupanti, per un giocatore del suo talento. Nella parte finale del 2023 ha giocato bene solo contro Novak Djokovic, in due partite, comunque perse, a Parigi e Torino, in cui è sembrato tornare ai livelli a cui ci aveva abituato. Sensazione confermata nel primo torneo dell’anno, a Brisbane, fermato solo in finale da Grigor Dimitrov; la sconfitta contro Cazaux agli Australian Open è stata una brutta battuta d’arresto, ma il vero disastro è avvenuto pochi giorni fa (nel primo torneo dopo la separazione da Becker e Luthi) a Rotterdam, con la sconfitta al secondo turno contro Shevchenko.
L’aspetto più grave è stata la modalità della sconfitta, un caos tattico e successivamente tecnico alla fine del terzo set, con un game folle (sul 4-3 per l’avversario), tra discese a rete senza senso e una fretta nel voler a tutti i costi chiudere il punto, segno di una confusione mentale evidente e preoccupante. Rune è sempre stato un giocatore istintivo, frenetico quasi, sia nei punti che nell’attesa degli stessi, la sua bravura però (almeno nei periodi buoni) era quella di rimanere comunque in controllo della situazione, evitando che i suoi eccessi prendessero il sopravvento sulla partita. Ultimamente questa capacità è un po’ sparita, le sue partite assomigliano a una serie di punti consecutivi, giocati senza avere bene chiaro cosa fare, più che a una partita vera e propria; per spiegare meglio la situazione, la sensazione di veder giocare Rune è quella di essere di fronte a un ragazzo che gioca un match di esibizione, senza considerare la diversa importanza dei punti, a seconda del risultato e dei momenti.
Sarà un lavoro difficile quello che dovrà fare Rune nei prossimi mesi, trovare il team giusto, che incanali le sue straripanti energie e talento nella direzione corretta, è un’operazione complicata, Tsitsipas (che ancora non ha risolto il problema) e Zverev (che negli ultimi anni ha trovato stabilità affidandosi a suo padre, dopo i tentativi falliti con Ferrero, Ferrer e Lendl) ne sanno qualcosa; un esempio virtuoso potrebbe essere proprio il rivale Sinner, che, in una situazione simile a quella in cui si trova il danese, passò dal suo allenatore storico, Riccardo Piatti, a Simone Vagnozzi, accompagnato in seguito da Darren Cahill, raggiungendo i risultati che ormai conosciamo bene. Per Alcaraz il discorso è un po’ differente, lo spagnolo, seppur coetaneo di Rune, è in un momento completamente diverso della carriera, le vittorie e i traguardi importanti sono già arrivati (due Slam, giocatore più giovane della storia a raggiungere la prima posizione mondiale, quattro Master 1000), ma dalla vittoria di Wimbledon sta affrontando un periodo di flessione, che non ha ancora fine.
Certo, parlare di flessione forse è un po’ esagerato, ma per gli standard a cui ci aveva abituato, il bottino raccolto da agosto in poi è discretamente misero; l’unico acuto è arrivato a Cincinnati, dove ha perso in finale contro Djokovic, in quella che forse è stata la partita più bella del 2023. Probabilmente è stato quello l’episodio che ha minato un po’ le certezze di Alcaraz, che, nei minuti successivi a quella sconfitta, ha pianto a dirotto, come se improvvisamente si fosse reso conto di essere battibile, umano e non fosse pronto ad accettarlo. Da lì sono arrivate tante sconfitte, con Medvedev, Sinner, Djokovic, Zverev, insomma contro quelli che sono i suoi rivali del presente e (tranne il serbo per motivi anagrafici) del futuro, ma la sensazione è stata quella di vedere un giocatore che non avesse le armi per vincere le partite, o meglio, che ne avesse così tante da non sapere quali usare per farlo; la confusione che regna nel piano di gioco dello spagnolo è impressionante, in certi tratti delle partite, sembra che il suo obiettivo sia quello di colpire la palla più forte possibile o di realizzare un colpo spettacolare, piuttosto che occuparsi di vincere il punto.
Anche in questo caso, alcuni infortuni non hanno aiutato, e forse la confusione di questo periodo è anche dovuta al fatto che lo spagnolo non si senta al 100% fisicamente e cerchi di arrangiarsi come può, affidandosi al suo enorme talento, per portare a casa le partite, perdendo inesorabilmente quando affronta giocatori che appartengono all’élite. Ritrovare la condizione fisica ottimale, programmare meglio il calendario (lo scorso anno giocò delle partite di esibizione a pochi giorni dalla vittoria di Wimbledon, scelta a posteriori rivedibile) e gestire in modo più efficace le tante opzioni tattiche che ha a disposizione, saranno le sfide da affrontare nel 2024 per Alcaraz, giunto al primo vero spartiacque della sua carriera.
Come dicevamo nel primo articolo di quest’anno, riferendoci in quel caso a Sinner, la costruzione di un campione è un processo che prevede diversi step, non si possono bruciare tutte le tappe e prima o poi gli scalini da salire ti si presentano davanti. L’italiano, anche grazie ai suoi due anni in più di esperienza, è riuscito a salirli, Alcaraz e Rune dovranno farlo al più presto (per lo spagnolo si tratterebbe di riprendere da dove aveva lasciato), per alzare il dito e dire “ci siamo anche noi”, stando così al passo del loro rivale.