È l’ultima domenica di gennaio. Milano si risveglia pigra, bagnata da una pioggia fastidiosa e intirizzita da una diffusa sensazione di freddo. In altri tempi sarebbe stata una domenica da Serie A, divano, copertina e tè bollente. Invece questa è una domenica da Sinner, lo sanno un po’ tutti. Metti timidamente il naso fuori di casa e anche l’edicolante te lo ricorda: “Lui soffre solo quando gioca sotto al sole, nelle ore calde. Invece la finale comincia quando laggiù in Australia è ora di cena. Io tra poco chiudo baracca e vado a guardarmela. Non avrà problemi, vedrai” – rassicura pacioso.
L’inquadratura dall’alto della Rod Laver Arena è una cartolina. Il sole si spegne dietro ai grattacieli, lasciando una scia rossa nel cielo riflessa sulle acque del fiume Yarra, che costeggia Melbourne Park, dove si gioca la finale degli Australian Open. Jannik non si è montato la testa, guai, eppure qualcosa in lui è cambiato. Adesso ha le scarpe decorate col suo simbolo, una volpe che alle sue spalle sperpera piccole impronte arancioni. Se gioca di giorno indossa un completo diverso da quello che sfoggia di sera, quando abbandona la t-shirt e scende in campo rigorosamente col colletto. Sono piccoli accorgimenti che separano un tennista normale da uno che lascia il segno.
Quando a Melbourne scoccano le ore 20, Sinner spara un servizio a duecento chilometri orari che pizzica la riga e lascia immobile Zverev: è il primo punto del match. Nella vita, spesso, l’inizio è rivelatore di come andranno a finire le cose. Eppure nel Tennis non sai mai cosa aspettarti, la storia è piena di campioni che sul più bello sono annegati in un bicchiere d’acqua. Internet è zeppo di video di coach professionisti che espongono affascinanti postulati di biomeccanica per incrementare in maniera scientifica la velocità del dritto, ma basta uno spiffero di vento o il colpo di tosse di uno spettatore per confutare tutto. Ogni partita ha i suoi tempi, nasconde sorprese degne delle migliori sceneggiature di Quentin Tarantino, hai imparato a non fidarti di niente e di nessuno fino a quando il giudice di sedia non pronuncia “game, set, match”.
Invece l’Italia ha imparato a fidarsi di Sinner, di un ragazzo di 23 anni che – come dice Adriano Panatta – non fa mai ‘na cazzata. Uno che non si lascia condizionare dall’ambiente esterno, anche nel momento in cui l’ambiente esterno fa di tutto per distrarlo: l’annuncio del Tas di Losanna sulle date del processo Clostebol è stato diramato alla vigilia del debutto di Jannik in Australia, non una coincidenza. La notizia, che poteva introdursi nella testa di Sinner come un ronzio inibitore nel caso in cui in campo le cose si fossero messe male, è stata trasformata in un rumore bianco, un sottofondo che lui ha sfruttato per dormire undici ore al posto di dieci, per avere più energia nei momenti di crisi. Le mani gli tremavano e sembrava sul punto di collassare contro Rune? Ha vinto lo stesso. Poi nei quarti e in semifinale, a De Minaur e Shelton, non ha concesso la soddisfazione di un set. Infine, al numero due del mondo Zverev, non ha offerto nemmeno una palla break. Terzo Slam vinto su altrettante finali. 100% di precisione. Sui binari, liscio come l’olio. Aveva ragione l’edicolante.
Jannik ha sbagliato solamente in conferenza stampa, prima della partita con Zverev, quando ha dichiarato: “Alla fine siamo solo atleti, persone che si svegliano con un obiettivo. Persone che non cambiano il mondo, perché siamo ottimi tennisti, gente che sa far bene il proprio lavoro, ma finisce lì”. Non finisce lì. Alla domenica, in Italia, è diventato un miracolo trovare un campo da tennis disponibile. Bambini, adolescenti, adulti e anziani si infilano sotto palloni riscaldati per provare ad assaporare quella sensazione di controllo assoluto che Sinner trasmette. Imparano presto a fare i conti con un’illusione che però – è innegabile – per qualche secondo ti fa sentire proprio bene. Che ti fa alzare dal letto al lunedì con la voglia di ridurre gli errori, di migliorare, di eliminare tutte quelle variabili che ti lascerebbero in balia degli eventi. Non salva vite in sala operatoria Jannik, ma qualcosa sta cambiando: distribuisce certezze, dà l’esempio, ispira. Sa fare bene il suo lavoro. Basta e avanza.