Fabio Di Giannantonio si presenta in sala stampa dopo la gara e si mette un bimbo sulle ginocchia. È Brando, figlio del suo manager Diego. È venuto al Mugello con la sua gente, un casco speciale, la costanza di un metronomo nei risultati che porta a casa. Manca ancora qualcosa per il podio, eppure più avanti di lui in classifica con una Ducati fanno solo Martín, Bagnaia, Marquez e Bastianini, ovvero chi fino a ieri si è giocato la moto rossa. Scommetterci lo scorso anno: impossibile, almeno per gli altri. Lui, in qualche modo, l'ha sempre saputo. Quando arriva perl'intervista concordata nel camion della VR46 è sorridente e rilassato con Jai, una deejay. "Allora una domanda la devo cancellare", gli dico. Lui ride: "Sei un bastardo". La ragazza si siede, ascolta con grande discrezione.
Al Mugello in Moto3 sei sempre andato a podio, in MotoGP hai fatto la prima pole della tua carriera. Cos’ha di speciale questa pista?
“Ah, il layout forse è il più bello del calendario. Anzi, senza forse. Bisogna far scorrere la moto, che è una delle caratteristiche che mi vengono bene, poi c’è un’atmosfera particolare. Si cresce un po’ con l’idea che il Mugello sia un posto magico e quando arrivi qui con la MotoGP lo percepisci proprio. Pensa che negli ultimi tre anni entro in pista facendo il primo giro urlando nel casco”.
Domenica sei stato il pilota che ha fatto più sorpassi: partivi quattordicesimo e sei arrivato settimo.
“Daje! Sono contento, secondo me abbiamo fatto una super gara. Al Mugello si può superare e ci sono tanti posti per farlo, però non è facile, soprattutto se sono gare così tirate. Essere stato quello che ha fatto più sorpassi senza cadute davanti è una cosa di cui dobbiamo essere orgogliosi, la moto era veramente ottima in gara. Dai, diciamo che è tutto positivo, stiamo andando veramente forte, ci manca quel qualcosina per stare veramente coi migliori. Ma anche entrare direttamente in Q2, trovando presto il set up, per lavorare sui dettagli come fanno quelli veri”.
Senti, ma vincere una gara in MotoGP è anche meglio di perdere la verginità?
“Sì, tutta la vita (ride, ndr). È strano da dire, però la sensazione che hai quando vivi per la tua passione e raggiungi uno degli obiettivi più grandi della tua vita, con la moto della vita… io darei qualsiasi cifra per rivivere quella cosa adesso. È una sensazione troppo particolare. Fare l’amore per la prima volta è bellissimo, anche se spesso è un disastro, però la prima vittoria è pazzesca”.
È un bel modo per spiegare la dedizione alla causa di un pilota. A proposito: se tu potessi avere gli stessi risultati di ora ma senza allenarti come impiegheresti tutto quel tempo libero?
“Che domanda. Io sono una persona abbastanza attiva in generale, ho tantissime passioni. Mi piace lo sport, qualsiasi tipo di sport: il surf, lo skate, sciare, andare in bici, qualsiasi cosa riguardi i motori, il calcetto… Mi piace la musica, mi sto appassionando tantissimo all’arte e al design, anche quello degli oggetti… Non so cosa farei esattamente, forse avendo troppe passioni rischierei di rimanere tutto il giorno sul divano”.
Giulio Fabbri (Direttore della Comunicazione Prodotto Ducati, ndr.) mi ha raccontato che un giorno a Franciacorta ti ha dato la tabella con scritto 6 - 1 - 0. Come ti ricordi quel periodo lì?
“Sì! Quell’anno è stato fighissimo, uno dei più belli della mia carriera e vita. Facevo la PreGP 250 4T, questa categoria che ti preparava alla Moto3. Ora è diverso, all’epoca però era un passaggio importante da fare. Correvo nel Team Twelve Racing, che era di Chili e Aldovrandi. Ci siamo divertiti tantissimo, siamo diventati amici. Venivamo col camper, coi miei genitori e c’era Romina - la moglie di Frankie - che ci preparava da mangiare, stavamo tutti assieme. E poi c’era Kevin, il figlio di Frankie. Uno spettacolo. Quella gara lì a Franciacorta è stata fighissima, avevo un bel vantaggio e sulla tabella Giulio mi metteva 6 - 1 - 0. Non capivo, continuavo a pensare a cosa volesse dirmi. Poi quando mi sono fermato ho capito e gli ho detto ‘No, tu sei uno zero’. Bello, fu un bellissimo periodo”.
Sembri uno che non è finito sulla moto nel nome del padre ma perché l’ha voluto profondamente. È così?
“Beh, io da piccolo ho avuto l’input di mio padre che quando avevo cinque anni e mezzo mi ha fatto provare. Per gioco provavamo, per gioco vincevamo e per gioco abbiamo continuato. Alla fine mi sono trovato a fare questo in maniera seria. Poi, e mi dispiace dire questa cosa, quando sono arrivato nel mondiale in Moto3 ho dovuto per forza lasciare la scuola e mi sono trasferito. All’epoca avevo 17 anni, quando ho capito che per andare forte in moto avrei dovuto fare dei cambiamenti non ci ho pensato de volte. Tutte le scelte che ho fatto nella mia vita per il mio sport le ho fatte in maniera naturale. Di base questo è quello che voglio fare. È la mia vita, la mia passione. È dove mi sento più a mio agio, magari a qualcuno piace stare a casa, o al bar. Io sono a mio agio su di una MotoGP a trecento all’ora”.
Hai un fratello minore e tu sei quello che fa il pilota in MotoGP: che rapporto avete?
“Mio fratello è un cretino! In senso buono eh, però… è un cretino! Ora siamo molto vicini, litighiamo un botto perché lui c’ha vent’anni ed è nel classico periodo da ventenne in cui pensi di sapere tutto della vita anche se di base non sai un cazzo. Siamo molto vicini, ci frequentiamo tantissimo ma allo stesso tempo litighiamo parecchio, è la persona che mi fa schizzare più di tutti. Però mi vuole un bene incredibile e forse vuole vedere il risultato anche più di me. C’è sicuramente un rapporto molto, molto stretto”.
Tu sei uno dei pochi piloti della MotoGP che sa pagare le bollette?
“Eh, ti dico la verità... non le ho mai pagate. Ma non penso sarebbe difficile, faccio tante altre cose e sinceramente non penso che questo mi metterebbe in difficoltà”.
Parlami di Roma.
“Io sono cresciuto con papà romano e romanista, Roma nel cuore. Mio padre mi ha dato questo nome, Fabio, perché è romano. Proprio Roma sentita, Roma. Crescendo l’ho amata sempre di più, è una città incredibile, vedi storie ovunque. E nonostante abbia mille lacune mi sento veramente a casa, poi ovviamente c’è la Roma calcio, è fighissimo avere un rapporto così stretto, sono il loro ambassador nel motorsport. Edo Bove è un mio grande amico, ho conosciuto metà spogliatoio, Walter Martinelli che è il fisio della Roma è anche il mio fisio. Roma è il mio posto sicuro, dove cerco anche di staccare. Poi non è molto motorsport, quasi zero. A volte penso che questo sia un limite, altre invece sono contento così. Mi piace dividere le cose, fare questo al trecento percento e poi tornare a casa e pensare alla vita in generale”.
C’è mai stato un periodo in cui hai pensato che essere romano potesse essere un problema nel motomondiale?
“Non è un problema, però la crescita che devi fare per diventare un professionista qua dentro è un po’ più difficile. A Roma c’è poco motorsport, fai fatica ad allenarti nelle strutture giuste e avere i consigli giusti. In Emilia Romagna invece c’è molta più passione riguardo ai motori ed è più facile conoscere la gente che può darti l’idea giusta o il consiglio che funziona. E poi banalmente…vai in pista, trovi l’Academy che gira e hai l’opportunità di conoscerli: già quello può fare la differenza”.
Franco Califano o Antonello Venditti?
“Difficile. Non saprei scegliere, so’ in crisi. (Lungo silenzio, ndr.) Magari dico Venditti, però ascolto veramente un botto di canzoni di tutti e due”.
Il tuo film preferito di Carlo Verdone.
“Ah, c’è quella scena di Grande, Grosso e… Verdone che mi fa impazzire, ogni volta coi miei amici diventiamo matti. Lui si chiama Vecchiarutti, lei Enza Sessa. C’è il figlio Steven che gioca a pallone nella hall. Mamma mia, lì ogni volta mi sento male! Con la receptionist che chiede se può dire al figlio di smetterla di palleggiare. 'Ah Steven!'”.
Evitando paragoni impossibili, quanto sono diversi il Team Gresini e il VR46 Racing Team?
“Si sente che questo è un team fatto da un pilota. Questo team è fatto da Valentino Rossi. Qui l’approccio che hanno le persone, in qualsiasi ambito, è fatto secondo le istruzioni di un pilota. Invece Gresini è proprio un team costruito come un’azienda, con i suoi valori e le sue linee guida. Lì il pilota deve entrare nel team, come succede sempre, mentre in VR sei al centro del progetto e tutto ruota un po’ intorno a te. Immagino che l'abbia fatto come sarebbe piaciuto a lui e personalmente penso che tutti i team debbano avere questo approccio: qui tutti fanno sforzi incredibili, spendono tantissimi soldi e con milioni di euro di investimenti, però quando la mattina il pilota si sveglia male tutti sti soldi volano via. Mettere il pilota al centro dell’attenzione e farlo sentire al meglio secondo me è la chiave per far sì che tutti gli sforzi della squadra vengano ricompensati”.
Un po’ di tempo fa hai detto che a Valentino chiederesti anche come ci si allacciano le scarpe: bello! Lo puoi spiegare meglio?
“Valentino è una di quelle poche persone che incontri nella vita e capisci che hanno qualcosa in più. Lo percepisci proprio, non so come dire. È sveglio… tu capisci una cosa e ti rendi conto che lui ha già visto più in là, è andato oltre e l'ha fatto da un pezzo. Anche in alcune scelte di vita, nella gestione delle sue società, nel team, nella carriera, come ha gestito la famiglia. Quando ci ho parlato mi ha sempre dato la sensazione di essere un figo in quel senso, poche persone mi hanno dato questa sensazione. Spero di avere un momento, magari quest’estate, in cui saremo seduti in spiaggia a chiacchierare delle cose della vita”.
Nella sala stampa di Barcellona hai parlato con i giornalisti italiani spiegando come dovrebbe essere, secondo te, il rapporto tra piloti e stampa. Lo puoi dire di nuovo?
“Beh, quando sono a casa non leggo le interviste e non guardo la televisione, mi informo per quello che mi serve ma solo il mimino indispensabile. Quello che mi piace di alcuni giornalisti è che cercano un contatto con l’altra persona provando a comunicare, a dare un’informazione in più a chi è a casa. A volte si tende a cercare la notizia, quando invece la notizia dovrebbe arrivarti quando hai un certo rapporto con il pilota. Devi fare in modo che lui si fidi del giornalista a tal punto da darti quel qualcosa in più, insomma dire cose belle e scrivere qualcosa in più perché c’è un bel rapporto. Invece secondo me negli anni si è creata una sorta di guerra, anche se il temine non è corretto: i piloti hanno quasi paura di dire le cose e i giornalisti, non avendo tante cose da scrivere perché noi siamo impauriti, magari cercano di tirare fuori qualcosa a forza. Sarebbe bello invece se il giornalismo fosse più positivo. Sapere che quando parli in maniera spontanea le tue emozioni vengono trasposte fedelmente secondo me renderebbe tutto un po’ più umano, un po’ più bello. E forse anche la gente si sentirebbe più vicina a noi. Sarebbe una cosa in più”.
Nel 2025 il tuo primo obiettivo è restare in VR46?
“Stiamo lavorando, ovviamente il primo obiettivo sarebbe quello di avere una moto ufficiale per giocarcela coi migliori. Qui mi trovo benissimo, sto benissimo e mi piacerebbe continuare con questa squadra. Poi ovviamente siamo sempre un po’ in attesa”.
Senti, al posto di Gigi Dall’Igna e senza la possibilità di prendere Fabio Di Giannantonio cosa avresti fatto?
“È un peccato, ma devo chiudere il team! (Ride, ndr.)”.
Spengo il registratore, ringrazio, mi alzo. Jai a Fabio: "Ma perché parli così strano, quando fai le interviste?".