Pensi alla Malesia in salsa Formula 1 e ti viene in mente il circuito di Sepang, per anni in calendario. Ma più o meno nello stesso periodo in cui la pista debuttava nel Circus, dalla Malesia arrivò anche un pilota. Alex Yoong, che, di fatto, un posto nella storia se l’è meritato davvero, visto che è l’unico del suo paese ad aver corso in F1. Ma noi lo ricordiamo soprattutto per essersi beccato della chicane mobile in diretta sulla Rai dal solitamente pacifico Ivan Capelli. Che, manco a dirlo, non aveva torto. Ma riavvolgiamo il nastro per ripercorrere la fulgida carriera del nostro.
Alex, nato nel 1976 da un’inglese e da un malese di origini cinesi, si avvicinò al mondo del motorsport dal lato delle due ruote. Quando aveva otto anni, infatti, gli fu regalata una moto da cross, una Kawasaki. È con le monoposto, però, che il nostro si fece vedere, fatta la classica gavetta nei kart. A 18 anni, vinse la Formula Asia International Race. E, dopo aver vinto il campionato malese di Formula Asia, approdò nella Formula Renault inglese. Da qui, il CV si fa decisamente meno interessante. Alex colse un 11° e un 13° posto in classifica, prima di spostarsi in Formula 3000 e in Formula Nippon, dove non lascia il segno.
Ma se c’è una cosa che abbiamo appreso nel nostro viaggio nella galassia dei bidoni, è che i soldi, in questi casi, ci mettono sempre una pezza. Per Alex, decisivo fu l’aiuto della Magnum Corporation, azienda sostenuta dal governo malese. Furono loro a lanciare il buon Yoong in F1, presentandosi dalla Minardi con una valigetta piena di soldi sul finire dell’estate del 2001. Si parlò di circa cinque milioni di dollari. Di qualsiasi cifra si trattasse, fu sufficiente a far defenestrare il povero Tarso Marques. Fu una valigia, insomma, a far preparare i bagagli al brasiliano.
E così, sulla Minardi PS01, a Monza, salì l’ottimo Yoong. Che, chiaramente, con poca pratica all’attivo, si dimostrò a suo agio in pista come un elefante in una cristalleria. Finché si trattò di prove libere e qualifiche, il nostro si tenne fuori dai guai, anche se ottenne l’ultima posizione sullo schieramento, a oltre cinque secondi dal poleman, Juan Pablo Montoya. Visto quello che sarebbe successo l’anno successivo, questo fu oro colato. Ma non anticipiamo troppo.
Meglio concentrarsi sul piatto forte, la gara di Monza. In cui il buon Alex si mise in mostra per il motivo sbagliato. Si ritrovò ad un passo dall’essere doppiato dai due piloti di testa, Montoya e Schumacher, che, in quel momento, stavano ingaggiando una vivace lotta. Preso dal panico più totale, finì in testacoda. E Juan Pablo e Michael dovettero schivarlo. Da qui nacque il commento di Capelli, che diventò leggenda. Lo apostrofò con l’azzeccato nomignolo di chicane mobile, per poi andare ad illustrare, con grande chiarezza, il motivo per cui era un pericolo pubblico.
Già il nostro non era esattamente un fulmine di guerra, ma il fatto che fosse stato sostanzialmente buttato in acqua senza saper nuotare non lo aiutò per nulla. Senza test, il battesimo di Yoong fu un disastro. E non andò meglio nemmeno l’anno successivo, anzi. Dopo aver fatto coppia per tre gare con un’altra leggenda della F1, Fernando Alonso, Alex nel 2002 si ritrovò in squadra un altro pilota molto efficace, Mark Webber. Ma l’inizio della stagione parve promettente anche per lui.
A Melbourne, infatti, la Minardi si presentò in grandissimo spolvero. Webber, al debutto in Formula 1, colse un quinto posto che pareva un miracolo. E pure Alex, settimo, arrivò vicino ai punti, che all’epoca venivano assegnati solo ai primi sei classificati. Ma si trattava di un fuoco di paglia. Perché il nostro non riuscì a replicare. Anzi, in tre occasioni mancò addirittura la qualificazione. Successe a Imola, Silverstone e Hockenheim, per via della regola del 107%, che, ironia della sorte, fu abolita per diversi anni proprio alla fine della stagione 2002.
Ma, a quel punto, ad Alex non importava più. La sua avventura in Formula 1 si era già conclusa, con un testacoda e un ritiro a Suzuka. La Minardi lo aveva sostituito con il test driver, Anthony Davidson, per le gare in Ungheria e Belgio, dando ad Alex il tempo per effettuare delle prove e migliorarsi. Ma ormai era troppo tardi. Il team di Faenza, di lì a poco, avrebbe deciso di non tenerlo per il 2003. Il fuoco di Alex, animatosi con troppa intensità, si estinse mestamente. Dopo l’exploit di Monza 2001, si era fatto anche notare con un testacoda all’ingresso dei box al Nürburgring l’anno successivo. Lampi di genio, per la gioia del suo acerrimo nemico, Ivan Capelli.
Dopo l’addio alla Formula 1, Alex continuò a correre. Nella ruggente A1 GP, categoria che meriterebbe un approfondimento a parte, il nostro vinse addirittura qualche gara. Gli fu persino conferito il premio alla memoria di Bruce McLaren per il miglior pilota del Commonwealth, nel 2006. Fu una vera e propria rivincita. L’anno successivo arrivò ottavo alla 24 Ore di Le Mans. Buoni risultati per un pilota che, attenzione, ci ha piazzato l’erede. Perché Alister, suo figlio diciottenne, ha seguito le orme del padre. Che la famiglia Yoong sia pronta al sequel?