Proviamo a raccontarci una favola. La favola di un bambino argentino che sogna di correre con le motociclette e che, insieme alla sua famiglia, mette in fila sacrifici su sacrifici per garantirsi la partecipazione a qualche campionato nazionale e magari pure l’iscrizione a una scuola prestigiosa per giovani piloti. Mettiamo nella favola, poi, pure che quel bambino riesce a conquistarsi la possibilità, a soli nove anni, di essere in griglia di partenza nella Junior Cup di un campionato che non è quello del suo paese, ma che è addirittura in Brasile e, per di più, su quel glorioso tracciato di Interlagos in cui un certo Valentino Rossi ha vinto ininterrottamente dal 2000 al 2003, per quattro volte di fila, dopo averlo già fatto nel 1997 quando correva in 125. Poi, sempre restando sulla favola, mettiamo pure che quel bambino corre la sua gara e poi torna a casa insieme alla famiglia e che, oggi che è martedì, sarebbe stato di nuovo sui banchi di scuola. Bella la favola. Eppure cose simili succedono ogni fine settimana in tutto il mondo, con tanto di complimenti ai bambini che sanno già impegnarsi in nome di una passione grande e alle famiglie che sanno aiutare i figli a inseguire i loro sogni.
Solo che questa volta, in un maledetto venerdì a Interlagos, qualcosa s’è inceppato nella favola. E ne è venuta fuori la storia vera di una tragedia. Perché Lorenzo Somaschini, dieci anni il prossimo 17 luglio, è morto, dopo aver perso il controllo della sua Honda 160 in uscita di curva (abbiamo già raccontato tutto qui) e dopo aver lottato come un leone all’Ospedale di San Paolo per quasi quattro giorni. Una notizia che meriterebbe silenzio e rispetto. Ma che è comunque una notizia e che, inevitabilmente, è finita sulle pagine sportive delle testate di settore di tutto il mondo. E quindi anche in rete e sui social. Solo che questa volta, molti di quelli pronti a applaudire un bambino e la sua famiglia e che hanno per passione lo sport delle dita frenetiche sugli smartphone (a cervello scollegato) hanno approfittato per sputare fuori tutto il veleno di cui sono capaci. Senza sapere niente, visto che è successo in Brasile. Senza avere la più pallida idea di regole, regolamenti e differenze tra ciò che succede in Europa e ciò che succede altrove. Senza provare a informarsi. Senza – e questa è la cosa più agghiacciante – mettersi nei panni di chi ha perso un figlio, un compagno di scuola, un amichetto. O fosse anche un tesserato di una federazione. Insomma: un bambino che sognava e che per il suo sogno si spendeva.
Sotto la notizia della morte di Lorenzo Somaschini, su MOW come sulle pagine social di altre testate, s’è letto davvero di tutto. Con tanto di insulti a quei genitori che qualcuno ha addirittura paragonato a degli assassini solo perché hanno permesso a loro figlio, sin da quando aveva tre anni, di amare veramente qualcosa. E per quel qualcosa spendersi. Ok, la sicurezza in pista è il tema dei temi e nessuna passione profonda giustificherà mai la morte. Soprattutto di un bambino. E’ giusto e sacrosanto pure pretendere di capire se tutte le regole della sicurezza sono state rispettate, così come è giusto pretendere che sulla sicurezza ci si interroghi sempre e sempre di più, anche circa l’opportunità di alzare i limiti di età per le competizioni con motine un po’ più potenti delle sei pollici. Ma il giudizio morale dovrebbe appartenere al Padreterno. Solo che il Padreterno non ha tempo di commentare con lo smartphone e nessuno dovrebbe permettersi di farne le veci.
Lorenzo Somaschini è morto mentre stava respirando vita, realizzando vita. Godendo di una passione grande e provando a migliorarsi, con il coraggio pure del confronto. Roba che chi è avvezzo al divano e alle dita sullo smartphone non può capire. No, quei genitori che oggi piangono tutte le lacrime che hanno, non se lo meritavano, perché probabilmente sono stati più genitori di tutti noi che magari – solo per la nostra stessa paura – le passioni proviamo a accopparle, invece che a farle ardere. A volte sostituendo la manopola del gas che Lorenzo stringeva tra le mani proprio con gli smartphone. Senza accorgersi che così un destino ancora peggiore lo si va probabilmente anche a cercare. Perché chi, nel giorno della morte di un bambino di nove anni che stava cavalcando il suo sogno ha la faccia tosta di lasciarsi andare a certi commenti, probabilmente è più morto del piccolo Lorenzo. E sta pure generando morte ulteriore. Si può morire cadendo da cavallo, si può morire per una pallina da tennis o giocando a calcio. Non deve succedere e bisogna fare ogni giorno di più perché non succeda, ma comunque succederà sempre. Ciò che invece andrebbe evitato proprio e senza appello è vivere da morti dentro, illudendoci che il segno della vita siano le dita che ancora si muovono su tasti (che non sono più reali manco quelli). Anche per rispetto del piccolo Lorenzo e di tutti quelli come lui che hanno incontrato un destino inaccettabile non mentre stavano sul divano a fare i TikTok, ma mentre provavano a alimentare l’unica cosa potente che può ancora salvare: il fuoco di una passione.