Siamo abituati a sportivi monodimensionali. Appiattiti dalle frasi fatte di calciatori che sbiascicano a denti stretti “ringrazio la curva, il mister per avermi fatto giocare, rispetto gli avversari ma non temo nessuno…” e da pochissima apertura empatica e interpersonale. Siamo convinti che la maggior parte degli atleti siano superficiali, personaggi che non vale la pena approfondire. Matteo Signani, “Il Giaguaro”, pugile quarantaquattrenne da Savignano sul Rubicone, è una caz*o di eccezione. Matteo è campione europeo dei pesi medi: ha vinto il titolo nel 2019 e lo ha difeso due volte, lo ha perso per un furto-verdetto in terra straniera contro Anderson Prestot ma se l’è riguadagnato nel novembre 2022 con un ko micidiale alla settima ripresa. Il suo colpo più famoso è il gancio sinistro che tramortisce gli avversari, come li narcotizzasse. Ora mette in palio di nuovo la sua amata cintura iridata: sabato 18 novembre, in diretta Rai Sport da Wolverhampton, combatterà contro l’affamato inglese Tyler Denny. “Anche se sono il campione lo so che parto sfavorito. È così da una vita intera! Ma col sorriso e con i fatti ho sempre smentito chi mi andava contro” dice Matteo mentre parliamo del suo avversario e del rischio di combattere in terra straniera. Di Signani si potrebbero dire tante cose. Anzitutto è un pugile vero: vive lo sport in ogni sua sfumatura, dalla più adrenalinica alla più dura. Uno sportivo integerrimo, eremitico: provateci voi ad essere campioni d’Europa a 44 anni, con la resistenza cardiovascolare di un ragazzino che si alza alle cinque del mattino per fare i pesi, poi sistema qualcosa nella sua casa di campagna, va a lavorare come Sottoufficiale della Guardia Costiera e poi ancora in palestra, due ore buone di pugilato potente. L’apparenza potrebbe fermarsi qui: un bravo ragazzo con la testa sulle spalle, semplice e solare. Ma come tutti gli esseri umani anche Matteo Signani ha una storia, ha conosciuto alti e bassi e ha dovuto combattere: contro altri pugili, sì, ma soprattutto contro sé stesso. Facciamo l’intervista nella sua bicocca, una casa di campagna alle porte di Savignano sul Rubicone, precisamente a Montilgallo. Più Romagna di così è impossibile: collinette che si affacciano sul litorale adriatico, moto che sgasano sulla statale e un sole che spacca la testa. La casa di Matteo è di mattoncini, con un bel giardino che si cinge tutto il perimetro. Veniamo accolti dai cani di Matteo, Tyson e Lady Oscar.
“Sai la storia di ‘sto giardino?” mi fa. Il giardino è effettivamente una crema. Tutto curato, spettacolare. “Qua non c’è acqua, almeno così dicevano. Io c’ho fatto venire un mio amico rabdomante. Lui stacca un ramo dall’albero e si fa tirare di peso verso un punto. Mi fa ‘Oh Matte, qua c’è acqua!’, e io allora mi pago le trivellazioni per verificare se c’era o meno. Bum, dopo non so quanti metri, da che la terra era secca e callosa è diventata dorata... Un affluente del Rubicone sotterraneo, probabilmente”. Beh, e quanto hai pagato il rabdomante? “Ma và! Una Ceres e via!” Matteo è orgoglioso della sua casa e ce la fa visitare. “Oh, ché ‘sta baracca l’ho tirata su a suon di cazzotti… c’è il mio sangue e quello dei miei avversari come nei mattoni e nelle travi!” Ci spostiamo sotto il patio ed è lì che Matteo tiene altri animali: c’è Adriano, cane della prateria, un roditore simpaticissimo, diverse galline, dei canarini, una civetta. “Amo troppo gli animali. Mi piace proprio la natura, mi rilassa dargli da mangiare, prendermene cura”. Gli chiedo se il vivere nella natura influenzi il suo essere pugile ligio e rigoroso. “Io qui ci sono nato e non ho mai vissuto la vita di campagna come un limite ma come un aiuto. Ci sono i momenti in cui mangio fuori e bevo due bicchieri di vino ma non esagero. Da ragazzino qualche volta mi sbronzavo col Cointreau, oggi ci sto male solo a sentirne l’odore. Faccio una vita pulita sempre, non solo quando ho i match da preparare. Ci sono tanti pugili che fuori dal training camp si devastano, io no”. Ci posizioniamo in cucina mentre la sua compagna Eleonora cucina il pranzo. Ha un pancione esagerato: è al nono mese e il bimbo dovrebbe nascere tra poche settimane. Matteo diventerà papà a 44 anni.
Un bel cambiamento, per la tua vita. Una donna, un bambino, tu che sei sempre stato piuttosto solo.
Ma Eleonora è speciale. Più matura dell’età che ha. Ho capito che si trattava della donna giusta, con cui costruire una famiglia. Raramente ho conosciuto donne come lei, che è intelligente, responsabile, seria. Oltre che bellissima.
Partiamo da zero. Che bambino eri e chi sono i tuoi genitori? Come li descriveresti?
I miei genitori sono un esempio fondamentale. Mamma Lucia e Papà Secondo. Mi hanno trasmesso i valori di correttezza e duro lavoro. Mia mamma era buona, una santa, lavoratrice ma sempre col sorriso. Mio babbo più rigido. Uno di poche parole. Faceva una vita da bestia, era camionista. Con lui ho poche foto da piccolino, forse solo una. Stava poche ore a casa e poi ripartiva. Tutto il giorno in strada, al volante. Stavamo riscoprendo di più il nostro rapporto adesso, in questi ultimi anni. Gli chiedevo come fare i lavori dentro casa, come montare… cose da padre e figlio. Purtroppo è venuto a mancare pochi mesi fa, un tumore fulminante. Da un mal di gola che non passava mai siamo arrivati ad avere le ossa piene di metastasi e i dottori non capivano come avesse retto così tanti mesi senza sentir nulla. Aveva una soglia di sopportazione del dolore enorme.
Come hai metabolizzato un lutto così improvviso?
Sai lui non era uno che faceva complimenti. Nemmeno adesso che son campione europeo… cioè lui a me non diceva mai ‘bravo, Matteo’, però poi passava al bar giù a Savignano e mi vantava con tutti, me lo dicevano i baristi o chi c’era Però ecco penso che nella vita c’è chi va e c’è chi viene. Ora aspettiamo un bimbo. Mio figlio lo chiameremo Carlo Secondo. Suona da re, ma il significato vero è più profondo.Un giorno c’è, l’altro non c’è. Parlavamo di come piantare gli ulivi… è stata dura. Ogni tanto ci parlo con mio papà, ancora. Più che parlarci ci dialogo mentalmente, provo a fare le cose come le avrebbe fatte lui. Mi ha lasciato tanto… cose che apprezzo a posteriori.
Quando hai iniziato a fare boxe e perché sei così innamorato di questo sport?
Ho iniziato a fare questo sport perché ero fin troppo vivace. La palestra era l’unico posto dove ascoltavo veramente ciò che mi veniva detto. Anche perché in sparring presi tante botte da gente più grande e più forte di me. E mi scattò la cosa di allenarmi sempre più forte. Ricordo ancora che debuttai da dilettante un anno e mezzo dopo, vinsi per KO alla prima ripresa. Eppure nessuno avrebbe scommesso su di me. Pensavano che avrei fatto una brutta fine, da delinquente.
Perché nessuno avrebbe scommesso su di te?
Nel pugilato perché non sono mai stato un talentuoso, uno bello da vedere. Ci sta il talento, ci vuole. Ma se non metti tutto ciò che hai, non ci metti dentro costanza e determinazione, non arrivi da nessuna parte. Ma poi c’era proprio gente che mi vedeva o al cimitero o in galera o in qualche altro postaccio. Invece sono diventato Sottoufficiale della Guardia Costiera e pugile campione europeo.
Cosa facevi di così aggressivo?
Menavo tutti i bambini, facevo scherzi ma molto pesanti. Non avevo senso della misura. Chissà, forse lo facevo perché volevo dimostrare qualcosa, richiamare attenzione. Ci provavano a tenermi buono ma ero davvero una bestiaccia. Intorno ai 14-15 anni, dopo l’ennesima volta che avevo picchiato un ragazzino mio vicino di casa, mi spedirono in una palestra di boxe a Santarcangelo di Romagna. Mia mamma non voleva, anche perché lei sapeva cosa facevo da bullo ma cercava sempre di blandire. La chiamavano da scuola perché menavo tutti, maschi e femmine. Considera che non mi volevano più a scuola, non mi invitavano più ai compleanni, facevano robe per cacciarmi dal catechismo.
E non pensavi di sbagliare tu, con questi atteggiamenti da bullo?
Io quando sentivo che non mi volevano, mi arrabbiavo ancora di più e facevo più casino di prima. Oggi però mi chiamano dalle comunità di recupero le mamme di quei bambini che menavo e che non mi volevano alle feste, per parlare con i loro stessi figli che hanno preso brutte strade. Mi chiama la parrocchia per la tombolata di Natale, vado nelle scuole a raccontare il mio percorso da pugile professionista.
Cosa significa essere pugile professionista in Italia?
Che dobbiamo farci un culo così, come tutti. Mi rattrista solo una cosa: che la fatica che facciamo non sempre è rapportata a quello che guadagniamo dopo un match. Io ho una cintura che vale quanto la Champions League eppure non prenderò nemmeno un mese di stipendio di un giocatore di serie A. Ma non è solo l’Italia, è la boxe in generale che ha perso molto in termini commerciali. Pochissimi guadagnano cifre allucinanti. Però noi rispetto ai calciatori prendiamo i cazzotti in bocca: non so se mi spiego.
Cosa significa per te combattere? Nello sport, nella vita, nella società?
Per me vuol dire non mollare mai. Una sconfitta ti abbatte. Gli allenamenti a volte non vanno come vorresti. I soldi che a volte ci sono a volte son pochi se paragonati alla fatica. Ma il fatto è che mi emoziono sempre, ogni singola volta che entro in palestra e mi metto le fascette. Io non vedo l’ora di andare in palestra anche ora! Ho un fuoco dentro che non so spiegare. Mi trasformo.
Sei un pugile con sei sconfitte in carriera. In un mondo dove oggi sembra sia vergognoso perdere, dove è obbligatorio essere performanti sempre, come sei riuscito a trasformare le sconfitte in motivazioni?
Per me non esiste proprio la sconfitta. Cioè è solo un risultato. Ogni sconfitta è una cicatrice e quando ti viene una cicatrice poi su quella parte di pelle non ti tagli più. Le metabolizzo con il duro lavoro, con autocritica per ripartire da dove si è sbagliato.
C’è qualcosa di cui hai paura?
Ho molta paura di dire basta. Non so cosa sarà dopo questo match. Io sto bene, scientificamente acclarato da esami specifici: ho i valori di un ragazzino immacolato. Però vedremo un po’ come va il match di sabato 18 novembre. So di avere una forma pazzesca e che posso battere Tyler Denny. Poi con i miei manager della Opi Since 82 faremo i conti. Intanto, anche con Prestot si diceva che ero vecchio, che ormai avevo perso. Ma poi al rematch l’ho steso per KO alla settima ripresa. Sempre sfavorito!
Qui siamo in piena campagna. Cosa provi quando sei in città e guardi le facce della gente stanca, scazzata ai semafori?
A volte in città provo tolleranza zero. Gli farei vedere le pene dell’inferno. Si lamentano di tutto, sempre tristi. Si vede che son stressati… però il male cercato non è mai abbastanza. Lascia stare i problemi irrisolvibili, ma se hai altri cazzi vai a correre, vai in palestra, cerca il contatto con la natura e vedi che ti ripigli. Inutile che ti sfondi di cibo e alcol a tavola, non ti risolve niente. Non dico che devi fare la vita sacrificata come me, ma almeno prova a cambiare.
Pensi che le privazioni ti possano rendere più felice?
Non è un discorso di felicità. Quella viene e va per tutti. Io credo che stiamo perdendo l’amore per noi stessi. Gli ospedali son pieni di gente che non si vuole bene. Forse prima era diverso. C’era di meno. Ora vogliamo tutto e lo vogliamo avere sempre.
Dici che stare in campagna può essere uno sprono a volersi bene?
Se uno non ci nasce fa fatica magari. Ma la natura ti salva davvero. A me aiuta a star bene osservare come cambiano i colori delle foglie. Male che vada che sei storto d’umore, fai una passeggiata e magari becchi un cinghiale, un fagiano, una lepre… durante il covid c’avevo dei lupi che gironzolavano qua nei dintorni.
Come vorresti essere ricordato, come pugile?
Come uno che non molla mai. Sembrerà scontato, ma è così. E che non si piange addosso. Odio il vittimismo. Siam tutti bravi a lamentarci e dire che fa tutto schifo ma a volte basta poco per cambiare e poi mica devi andar da zero a cento. Puoi andare per gradi. Basta che cominci: da qualche parte bisogna pur partire. Ti racconto un episodio: una volta per scappare da mio zio mi nascosi su un albero. Poi un ramo si ruppe e io caddi e mi si infilò un altro ramo nell’addome, trapassandomi la pelle, proprio come un piercing ma spesso dieci centimetri. Ero appeso come un quarto di bue. Mi issai con tutte le mie forze, spingendo il ramo fuori dalla pancia, e caddi nel vuoto. A quei tempi se ti facevi male prima di chiamar medico o pronto soccorso prendevi le botte e allora io son corso in casa, nella stanza di mia zia, e mi cucii da solo il buco con ago e filo per non farmi scoprire. Morale della favola: non ci sono scuse. Anche nelle situazioni più incasinate, un modo per venirne fuori c’è. Magari farà male, ma senza il dolore non arrivi. Sangue, sudore e gloria!