Fabrizio Porrozzi ha scattato le corse per quarant’anni. Quarantuno, puntualizza lui. Ha visto nascere la Superbike e i suoi anni d’oro, ha raccontato la Ducati 916 e il debutto della casa bolognese in MotoGP. Ha scattato Carl Fogarty che stringe sua figlia dopo una vittoria, Troy Bayliss che dice addio alle corse, Max Biaggi che vince il mondiale a Imola. E Valentino nei suoi anni d’oro, dalla Honda alla Yamaha. Racconta di un mondo cambiato, a cui ha deciso di dire addio a fine anno. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per farci raccontare gli anni più folli del motorsport, l’evoluzione della fotografia e dei paddock.
Quest'anno festeggi un anniversario.
“Si, 41 anni nelle corse, 30 nel mondiale Superbike”.
Come hai cominciato con la fotografia?
“Per me è sempre stato normale. Mio fratello faceva il giornalista di moto e lavorava per una rivista. Io, dopo la scuola, andavo a curiosare. Era una situazione facile, ci potevo arrivare con l’autobus. Da lì ho cominciato a fare qualche lavoretto, sistemando l’archivio. Poi il fotografo della rivista aveva bisogno di un assistente, mi sono proposto… ed è andata bene”.
Una gara costava qualcosa come 8.000€ solo di spese telefoniche. Oggi con quei soldi ci fai mezzo campionato. Tutto compreso eh, viaggio, alloggio, foto...
Come sei arrivato in Superbike?
“Sempre tramite mio fratello. Lui lavorava per una rivista alternativa rispetto alle firme dell’epoca che ci sono tutt’ora, cercava sempre temi differenti. Prima della Superbike lavoravo con lui in un campionato che si chiamava TT Formula 1, erano le antesignane delle derivate di serie. Nel 1987 lo vinse Virginio Ferrari, con la Bimota. E mio fratello mi spingeva ad andare a queste gare molto particolari. Al tempo c’era il mito delle gare americane. Daytona, i manubri alti… tutti i grandi della scuola americana venivano da queste moto derivate di serie: Spencer, Roberts, Lawson, Rainey, Schwantz… hanno tutti corso con quelle moto che oggi si chiamerebbero Superbike".
"All’epoca il punto d’arrivo erano le 500 due tempi, questi correvano con i quattro tempi e sembrava un’eresia. Poi nel 1988 la federazione organizzò il primo mondiale della Superbike e nel 1989 lo diedero ai fratelli Flammini. Noi, soprattutto mio fratello, avevamo un ottimo rapporto con Maurizio Flammini, che ci coinvolse. La prima gara che ho fatto è stata la prima del mondiale, a Donington. La vinse Falappa ma rimase nella storia per mille altre situazioni".
Da lì non ti sei mai fermato.
“No, esatto. E per 10 anni ho fatto sia MotoGP che Superbike”.
In che anni hai lavorato nella MotoGP?
“Dal 2000 al 2010. Sono stato fortunato. Marco Lucchinelli nel 1990 mi fece firmare il primo contratto con Ducati. E fino al 2014 sono stato il fotografo ufficiale Ducati. Prima per la Superbike, poi loro decisero di passare in MotoGP e mi chiesero se volevo andare con loro. Così siamo rimasti assieme fino al 2014. Se vai a mangiare alla mensa della Ducati la vedi tutta arredata da fotografie che ho scattato io”.
Una bella goduria.
“Si, e per tanti anni loro hanno decorato con le mie foto un muro della fabbrica da quaranta metri per quattro, prima con la Superbike e poi con la MotoGP. Poi purtroppo ci hanno costruito sopra e adesso quello spazio non c’è più, ma era pazzesco”.
Io credo che mai come in questo mestiere ci sia meritocrazia. Se hai la capacità prima o poi viene fuori.
Ne avrai viste di ogni genere. Chi ti ha impressionato di più?
“Franco Villani, che considero il mio maestro e che per anni è stato il fotografo di Motosprint e Autosprint, mi disse una cosa importantissima. Io al tempo ero il ragazzino del gruppo, il giovane. C’era una differenza generazionale immensa. Franco mi disse di cercare di non avere mai rapporti con i piloti. Lui veniva da un’epoca in cui il pilota lo vedevi alla partenza e non era detto che l’avresti visto all’arrivo. Lui viveva le corse con un forte distacco”.
Probabilmente ci aveva sbattuto la faccia.
“Forse si. Ma alla fine in questo ambiente è impossibile non avere rapporti umani. Con alcuni piloti è più facile, con altri non andrai mai d’accordo, con altri ancora non puoi lavorarci. Per vent’anni sono stato fotografo ufficiale della Superbike, quindi dovevo essere un po’ sopra le parti”.
Certo che se vinceva un Fogarty o un Bayliss…
“Eh, certo. Ma anche Giancarlo Falappa, Fabrizio Pirovano. Oggi è difficile spiegare com’era l’atmosfera 30 anni fa. Si mangiava tutti insieme, la divisione era per nazioni per una questione di lingua. Anche perché in tanti non parlavano altro che il dialetto locale. E spesso il box era unico, una grande tettoia. Non c’erano pareti, né divisione. ‘Mi passi la pinza? Si, aspetta’ un altro mondo”.
Una gara che ricordi meglio delle altre?
“Beh, faccio fatica, ne ho viste parecchie. Magari in Cina, quando vinse Stoner (nel 2007, ndr). Pazzesca. O quando Troy Bayliss vinse a Valencia nel 2006. In quella gara sono successe tante cose importanti: Valentino che cade, Nicky che vince il mondiale. Ma quasi nessuno se lo ricorda perché Troy fece qualcosa di incredibile che non credo farà più nessuno. E con lui ho un rapporto un po' particolare, sono l’unica persona che ha voluto vicino assieme alla moglie alla sua ultima gara a Portimaõ”.
“Oggi per esempio (ad Aragon, ndr.”) è stata fatta una cosa per Carlos Checa, che contravvenendo a qualunque protocollo ha mollato tutto e mi è venuto ad abbracciare. Ora ha fatto una specie di museo a casa sua e buona parte delle foto che ha scelto le ho fatte io. Fred Merkel, il primo campione del mondo della Superbike, ha le mie foto appese”.
Come firmare autografi al contrario.
“Carl Fogarty mi dice sempre che la foto più bella che ha la tiene nel salone di casa e gliel’ho fatta io. E anche la moglie mi raccontava che quando hanno cambiato casa hanno fatto un casino per portarsela via. È una foto particolare fatta ad Albacete, lui alza non la coppa, ma la figlia. Anche Bayliss, Carlos Checa… in tanti hanno la casa tappezzata di mie foto. Una goduria, ma è un po’ difficile da spiegare. Se penso allo scopo del mio lavoro diciamo che è questo. Sono riuscito a congelare alcuni ricordi dei grandi campioni, ma non sono i miei ricordi… sono i loro. Ed è una bella cosa”.
Mi sono sempre considerato un fotografo di cronaca più che un creativo.
Come cerchi lo scatto, la foto giusta?
“Mah, io devo dire che ho una visione molto classica della mia professione, al contrario di molti colleghi che hanno un’idea più artistica. A seconda del periodo storico alcune scelte possono essere più vincenti di altre. Io mi sono sempre considerato un fotografo di cronaca più che un creativo. Sarò stato 110 volte a Phillip Island. E in qualche maniera so che in una curva possano succedere più cose rispetto ad u’altra. E non è solo bravura, c’è l’esperienza che ti porta in un posto piuttosto che in un altro, ma non è detto che questo basti a fare lo scatto”.
Come combatti la noia?
“Sono molto fortunato, in tutti questi anni ho trovato tanti stimoli per andare avanti. Però inevitabilmente la noia c’è, per quanto uno possa essere appassionato. Le moto sono le moto, le puoi girare come ti pare ma la foto è quella. Un po’ di sfide però ci sono sempre, mi danno quella spinta che serve per andare avanti. Anche se ho deciso di fermarmi a fine anno”.
È difficile spiegare com’era l’atmosfera 30 anni fa. Si mangiava tutti insieme, la divisione era per nazioni per una questione di lingua.
Perché?
“Penso sia anche giusto dare spazio ad altri, ai giovani che stanno arrivando e che sono molto bravi. Hanno una visione del mondo più digitale della mia. Instagram ha cambiato molto le cose. Dal punto di vista fotografico è un disastro. Tu devi fotografare una moto, che è stretta e lunga, e lo devi fare in verticale. Diventa tutto complicato (ride). Per me scattare in verticale significa fare la copertina del giornale, tutte le altre foto sono orizzontali. Poi ci sono i siti web, che ti fanno lavorare in 16:9 e devi cambiare ancora modo di fotografare. Ogni piattaforma ha il suo, e per me è naturale pensare al mio lavoro sulla carta stampata. Ho sessant’anni, il mio imprinting nasce da lì. Ai giovani viene più facile scattare quadrato. Quindi è il loro momento. Glielo devi dà sto spazio.Io dovrei fare una forzatura così grande per modificare il mio modo di scattare che non so se sono in grado di farlo. È uno stimolo che non mi attrae”.
Come hai vissuto il passaggio al digitale?
“Benissimo. Sono stato uno dei primi in Italia, perché sono appassionato di tecnologia da sempre. Dai tempi in cui non esistevano le macchine digitali e si usava la pellicola. Bisognava fare la scansione sui campi di gara e poi spedire in situazioni che adesso sarebbero improponibili. Non esisteva internet. I negativi della pellicola venivano sviluppati in un laboratorio vicino al circuito, si prendevano i negativi e li si scannerizzavano con degli scanner portatili. Parliamo di tempistiche lentissime. Le selezionavi, le lavoravi un po’ e iniziavi a spedirle con il modem. Poi facevi una telefonata diretta alla redazione: chiamavi, chessò, dal Giappone, e ci volevano qualcosa come 25 minuti per una foto. Quindi dovevi essere bravissimo nella selezione, non potevi mandare cento foto e comunque i costi erano pazzeschi. Ricordo bollette telefoniche da da 19 milioni di lire. Immagina adesso. Una gara costava qualcosa come 8.000€ solo di spese telefoniche. Oggi con quei soldi ci fai mezzo campionato. Tutto compreso eh, viaggio, alloggio, foto…”
Nessuno spera di tornare indietro.
“No, certo. Sono state situazioni pionieristiche e divertenti, ma i frutti li vedi. Ho acquisito degli automatismi perché adesso scatto, seleziono e spedisco solo il necessario. E questo sicuramente facilita il lavoro di chi è dell’altra parte che non viene affogato da diecimila foto. Sai, sono l’unico fotografo in una famiglia di giornalisti, quindi un po’ ho presente…"
“Io lavoro con Motosprint dal 1983. Il secondo direttore di Motosprint era Tommaso Valentinetti, che era stato direttore anche nella rivista dove lavorava mio fratello ed in cui ero andato a fare l’archivio. Quindi mi conosceva da quando avevo 13 anni, una cosa così. E mi propose di seguire il campionato europeo, che al tempo era importante. Ci correva il Team Italia sponsorizzato da Marlboro e Kodak, giravano i soldi veri. Accettai subito. E litigai con mio fratello, perché feci il salto prima io di lui. Mi ha fatto cominciare mio fratello Claudio… e ora che lui non c’è più, il mio capo è suo figlio, mio nipote Federico (ride)”.
Cosa deve fare un ragazzo giovane per arrivare a fare il tuo lavoro?
“Io credo che mai come in questo mestiere ci sia meritocrazia. Perché se hai la capacità prima o poi viene fuori. L’immagine parla da sola. La differenza tra fare il professionista e l’amatore è che il primo può permettersi di non fare una bella foto. Perché non gli va, non gli viene, ha un problema… Il professionista lo deve fare. E deve portare a casa foto con una qualità più che discreta. Devi essere in grado di garantire queste foto tutti i giorni, anche se ti sei svegliato male o hai litigato con tua moglie o tuo marito. Anche se ti hanno appena mandato a fanculo, vai in pista e fai la foto. La fai bene. Magari non subito, ma questo prima o poi ti premia. Anche perché questi nuovi media, a partire da Instagram, aiutano molto. Ti offrono una notorietà che non misuri solo con i like. Qualcuno può dare uno spessore a quello che fai e questo viene notato. Così riesci ad avere delle opportunità che in questo momento non è mai facile. In questo mestiere chi è capace emerge, non c’è la possibilità di nascondersi o imbrogliare. Puoi fare finta per un po’, ma poi ti scoprono”.