Quando LeBron James lasciò i Cleveland Cavaliers, la sua squadra di casa, senza essere riuscito a vincere un titolo, fu un disastro mediatico. Andò nei Miami Heat - la squadra più forte dell’NBA - dove avrebbe trionfato con facilità e, come se non bastasse, lo annunciò durante una lunga intervista in diretta, chiamata The Decision. L’intero prodotto (nonostante i ricavati andassero in beneficienza) venne ridicolizzato e, a coronare il disastro, fu proprio LeBron che fece l’attesissimo annuncio con la frase: porterò i miei talenti a South Beach. Una comunicazione che strideva come unghie sulla lavagna, e che gli causò la fama di supponente, insopportabile, sfacciato, campione senza titolo. Ci volle tempo e redenzione per riportarlo al top ma lui, LeBron James, non smise mai di essere se stesso. Anche mentre tutti lo odiavano, anche dopo aver perso l’appoggio di tutto il suo pubblico.
Quando Novak Djokovic vinse tutto quello che si poteva vincere, diventando il tennista numero 1 al mondo, si spense. Doveva essere la consacrazione di un'egemonia assoluta ma, il 2017, fu il suo annus horribilis. Inferno fisico, mentale, mediatico, spirituale, personale. E il 2018 sembrava andare ancora peggio. Uscì dalla top 10 del ranking mondiale, a un certo punto slittò addirittura al 22esimo posto. I media cominciarono a parlare di lui come una stella cadente, un tennista consacrato a star assoluta troppo presto. “Forse Nole non è poi tutto sto talento” si vociferava, mentre a dare spettacolo nei campi di tutto il mondo c’erano i suoi avversari di sempre: Federer e Nadal. La stampa lo uccise, proprio mentre Djokovic soffriva fisicamente (con un gomito ko) e personalmente.
Ma si riprese. Tornò alle origini, ritrovò se stesso partendo da chi aveva intorno, e vinse tutto di nuovo. Lo fece a partire dal 18 luglio 2018 portando a casa il suo quinto Wimbledon, tra le lacrime della redenzione. E nessuno parlò più, mai più, di Novak Djokovic come di un sopravvalutato.
Quando Michael Schumacher arrivò in Ferrari non lo voleva nessuno. A Monza 1995, l’ultimo Gran Premio d’Italia per Jean Alesi alla guida della rossa, sugli spalti sventolava un cartello: “Meglio un Alesi oggi che 100 Schumacher domani”. Schumacher era glaciale, terribile, antipatico. Lo misero alla gogna prima ancora di vederlo correre. Il Kaiser lo ammise, molti anni dopo, ma tutto quell’odio lo destabilizzò parecchio. Andava in una squadra storica ma perdente, andava a sfidare il destino per entrare nella storia, ma nessuno sembrava volerlo davvero. I tifosi italiani non apprezzavano quella freddezza, ai media piaceva poco, pochissimo, alla Ferrari sembrava già fuori posto prima ancora di avere un sedile. Il suo talento scrisse poi una storia molto diversa da quella di quel cartellone a Monza 95.
Lo sport è così, lo è sempre stato. Tre storie che potrebbero essere trecento o trentamila. Cadute e risalite di campioni assoluti, di bambini agli esordi, di dilettanti e di atleti fuori dal normale. I tifosi dei Cavaliers, il giorno dell’addio di LeBron James, mica lo sapevano che poi lui sarebbe tornato a casa, da loro, e li avrebbe portati al successo. Lo odiarono, lo insultarono, e la stampa cavalcò quell’onda. LeBron trovò la forza nel suo essere, assoluto e ineguagliabile, semplicemente LeBron.
Prendersela quindi con tifosi e media, come ha recentemente fatto Jacques Villeneuve, per il trattamento riservato a Vettel, ha davvero poco senso. Sebastian è un quattro volte campione del mondo, assunto dalla Ferrari con l’idea (e lo stipendio) di un trascinatore.
“Quando è stato annunciato l’arrivo di Leclerc, tifosi e giornalisti hanno distrutto Vettel. Questo ha fatto un male incredibile a Seb. Troppo facile ora dire povero Vettel, questo è iniziato due anni fa da tutti voi”.
Non ha senso cercare di capire quante colpe ha avuto il tedesco nel fallimento del progetto Ferrari degli ultimi anni, come non ha senso sviscerare il cambiamento della figura di Vettel, da eroe della rossa a grande capro espiatorio, ma sarebbe troppo facile dare la colpa del suo declino come pilota alla durezza di tifosi e giornalisti.
Probabilmente è vero, Vettel ha sofferto psicologicamente e questa sofferenza lo ha distrutto a livello sportivo. Ma Vettel è un pilota, un quattro volte campione del mondo, un esperto del suo settore assunto con il preciso obbiettivo di guidare una squadra. Non di essere coccolato, non di essere protetto dall’arrivo di un bambino prodigio.
LeBron James si è risollevato da solo, contro i fischi di un pubblico disilluso. Novak Djokovic ha riconquistato con le unghie il suo posto nell’olimpo del tennis, andandosi a riprendere anche quella stampa tanto critica contro di lui. Michael Schumacher stracciò, con il successo in pista, l’odio dei ferraristi, diventando il simbolo di una scuderia, di un decennio, di uno sport.
Che Vettel sia nel momento peggiore della sua carriera dispiace a tutti, tifosi e giornalisti compresi, ma risollevarsi spetta a lui. Contro tutto e tutti.