Piange Mirka, come una bambina. Roger la guarda in alto, lui in campo e lei in piedi, in un posto che nella vita ha occupato centinaia e centinaia di volte, dall'alto di una tribuna da cui lo ha sempre tenuto d'occhio. Se ne sta nello spazio piccolo di chi quell'arena di gladiatori può solo guardarla e negli occhi emozionati di un'ultima volta si vedono tutte le fatiche e le gioie del viaggio che hanno fatto insieme. Mirka con le mani sul volto, Mirka con gli occhi sbarrati, Mirka che si alza in piedi e poi si nasconde, che le emozioni non le trattiene, che prega e che esulta, che combatte come può ogni battaglia di suo marito.
Lei che per lui c'è sempre stata non può mancare a Londra, nel giorno del suo addio al tennis, e dall'alto al basso si guardano, si studiano e si capiscono senza bisogno di parlare. Federer ormai piange da ore, piangono tutti. Le parole gli muoiono in gola e quando prova a dedicare un ringraziamento alla moglie la situazione peggiora. Lei lo guarda e scuote la testa: no, no, Roger, no. Non dire niente, che già so tutto. Non dire che avrei voluto che ti ritirassi prima, il viaggio è stato perfetto così. Fa no, no con testa ma suo marito continua.
A Federer non hanno mai fatto paura le lacrime. In uno sport di maschere africane, di tensione e di tempi impossibili da sostenere, fisicamente e mentalmente, Re Roger ha sempre avuto la forza di mostrare le proprie emozioni. Ha pianto tanto, ha sofferto tanto, ha vinto tutto ciò che poteva vincere e lo ha fatto in un modo, e in un tempo, che lo hanno reso eterno. Non gli fa paura neanche questo addio, nonostante i suoi gesti sembrino dire il contrario.
La disperazione del dover lasciare il campo per l'ultima volta si mischia alle emozioni di aver avuto l'onore, la forza e la perseveranza per calcarlo fino a 41 anni. "Non sono triste, sono felice" dice abbracciando i figli, quattro gemelli che sono la copia esatta di mamma Mirka e papà Roger, e niente è più vero di una frase così, sussurrata all'orecchio di quattro bambini disperati. Le due ragazze più grandi, le primogenite dei Federer, sono inconsolabili ma basta una frase per dare un senso al tutto: non è tristezza, quella che c'è qui.
E' gratitudine, è sorpresa, è la fine di un viaggio perfetto che "rifarei da capo". Fa entrare tutto quello che, nella solitudine del campo da tennis, ha sempre tenuto fuori, e ci regala uno spettacolo indimenticabile. Ha cambiato la storia del suo sport, Roger Federer. E con il suo ritiro ha cambiato la storia di tutti gli sport, per sempre.
Non Michael Schumahcer, non Valentino Rossi, non Michael Jordan o Diego Armando Maradona. Nessun addio potrà mai anche solo assomigliare a quello del re del tennis che, nella Londra dei suoi successi più belli a Wimbledon, saluta lo sport che per tutta la sua vita ce lo ha mostrato nudo, esposto, dentro un'arena in cui è impossibile nascondersi. E così anche nel giorno più duro Roger ha scelto di mostrarsi per intero, come il tennis gli ha insegnato a fare: fragile, felice, senza spogliatoi in cui rifugiarsi, senza la paura di niente.
Tiene la mano di Rafael Nadal, rivale e amico di sempre, e lo guarda stare male come lui, forse peggio di lui. Allo stesso livello, ancora una volta, dentro la stessa arena, per l'ultimo ballo. Non è lontano come Mirka, in alto sugli spalti, è accanto a lui dove dovrebbe essere.
Unico, in una vita di dritti e rovesci, infortuni e ritorni, in grado di capirlo fino in fondo. Quante ore avranno passato a sfidarsi, a odiarsi, a comprendersi e conoscersi. Quante ore a cercare di essere l'uno meglio dell'altro, a capire i punti di rottura e le debolezze. Quanto tempo passato insieme lì dove nessuno, tranne loro, è potuto entrare.
Ancora una volta quindi, l'ultima volta. Fragili in uno sport che impone di dimenticarla, la fragilità. Uniti da un viaggio perfetto che, come papà Roger ha spiegato ai suoi gemelli stringendoli forte al centro del campo, non si chiude con la tristezza. Ma con la felicità più grande. Quella di lasciare il tennis diverso da come l'ha trovato.